Il Cardinale, in dialogo con il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha riflettuto su “Popolo, appartenenza, identità nella società interculturale”. «Il mescolamento è ormai un fenomeno strutturale e le migrazioni non possono essere considerate solo emergenza»
di Annamaria BRACCINI
«Il meticciato di civiltà e di culture è un fatto, un processo inarrestabile e occorre esserne consapevoli».
Il cardinale Scola dice così, e lo ribadisce più volte, mentre dialoga con il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana. Ad ascoltarli è un folto pubblico che si ritrova presso al Fondazione Corriere della Sera per uno degli appuntamenti dell’iniziativa “Res popoli”, promossa dalla Fondazione stessa e da Banco Popolare. E, così, si parla di “Popolo, appartenenza, identità nella società interculturale”, in una sera segnata dall’emozione, ancora vivissima, per il ferimento di un appartenente alla Comunità ebraica di Milano. Lo sottolinea il direttore che dice, in apertura, «è una giornata di particolare tensione per la nostra Milano e per tutto il Paese. Non sappiamo ancora bene quali siano le radici di questo fatto, ma certo sono forti le preoccupazioni». In prima fila siede Milo Hasbani, copresidente della Comunità, «che ha voluto partecipare a questo nostro incontro per testimoniare come il dialogo sia elemento fondante e decisivo». Di un tristissimo episodio «sul quale speriamo che si possa fare presto chiarezza», parla anche l’Arcivescovo che ricorda l’appoggio e il sostegno già espresso in un messaggio della Diocesi alla Comunità di Milano, «con cui ho il dono di intrattenere validi e fruttuosi rapporti».
Poi, il dibattito a 360°. Narra, il Cardinale, come ha intuito la inevitabilità del meticciato. «Nel 1998, quando ero Rettore della Lateranense, ho iniziato a parlare di meticciato di civiltà dopo aver potuto frequentare soprattutto le Chiese di rito orientale in Medio Oriente, dove sopravvivono ben sette Riti diversi».
Da qui, la decisione di dare avvio alla rivista “Oasis”, per il dialogo tra le due sponde del Mediterraneo, pubblicata in cinque lingue. «Ho capito – spiega – che, al di là della sottovalutazione e della mancata conoscenza da parte europea di quei Paesi, essi hanno una chiave di lettura di estremo interesse nei confronti dell’Islam, con cui hanno convissuto per duemila anni, come dimostra l’esempio del Libano».
È in tale logica, di fronte a un mescolarsi di culture e di civiltà inarrestabile e destinato a diventare un problema strutturale di tutto il nord del pianeta, che si tratta per Scola, di prendere consapevolezza, sottolineando la parola “processo” o, meglio, “processi”. «Processi che accadono e che noi possiamo orientare – ovvio il richiamo delle categorie del dialogo e della testimonianza – attraverso una cultura dinamica dell’incontro», scandisce. «Non è che dobbiamo tendere al meticciato: semplicemente è ciò che accade».
E se tutti condividiamo le esperienze comuni del vivere, del lavorare, del riposo, del dolore e della gioia – infatti, «nessuno è “lontano”, perché siamo umani» – è evidente che siamo, per questo e in modo strutturale, tutti altrettanto in relazione: «Questo vale anche per i popoli», come bene sanno i cristiani «tanto che già Gaudium et Spes parla di Chiesa come popolo di popoli».
Eppure, le riserve permangono, sottolinea, prendendo ancora la parola il direttore Fontana. «Mentre stiamo vivendo una terza guerra mondiale “spezzettata”, le nostre società devono subire talvolta modi di vivere molto diversi. Come il meticciato è un dato di fatto così lo sono le paure che generano muri, populismi, fino alla violenza», riflette.
Chiara la risposta del Cardinale: «Stiamo vivendo un cambiamento di epoca, non un’epoca di cambiamento. È qualcosa che non ha precedenti, segnata, come è, da una serie di fattori che denotano un elemento di discontinuità dominante per cui spesso si riduce il tutto a frammento. Pensiamo alla civiltà delle reti, alle neuroscienze, alle biotecnologie. Con la caduta dei muri si è concluso qualcosa, ma la domanda ora è: “e adesso?”.
«L’accettazione critica del processo, all’interno di una società plurale, è questione necessaria, perché se questo processo viene sentito indominabile, la risposta primaria è la paura. Da questo punto di vista siamo condannati al dialogo con l’Islam. Non è intelligente negarlo e la paura non può diventare un criterio di lettura della realtà».
Come a dire, il timore diffuso non va sottovalutato, ma interpretato per scalzare interpretazioni strumentali. «Questo il vero pericolo. Se la paura si sedimenta ed è cavalcata, non è cosa buona».
Il direttore Fontana ricorda quella sorta di “Piano Marshall””, auspicato dal Cardinale dopo la sua visita in Medio Oriente e nei campi profughi. Ma come metterlo in pratica, oggi «in un’Europa apatica nella quale paiono richiudersi le finestre apertesi con le decisioni, ad esempio, della Merkel sull’immigrazione, e in una realtà in cui persino la Svezia ha deciso di sospendere l’ingresso dei rifugiati, cosa che non succedeva da diciannove anni?».
«Questo Piano Marshall può essere un’indicazione. Riflettiamo – invita Scola – che 150.000 persone normali, in una notte hanno perso tutto e si sono ritrovati in quindici in ogni container sotto cinquanta gradi nel capo profughi di Erbil, nel Kurdistan iracheno.
Eppure l’Arcivescovo che, tra le tende, ha visto desiderio di resistere e solidarietà, non è pessimista: «nel mondo si pensa che l’Europa sia opulenta ed egoista, ma come italiani credo che abbiamo intravisto delle “piste”. Io vedo tre soggetti in campo per quello che potrebbe essere questo Piano Marshall: chi da una mano, si fa prossimo, con un primo intervento – se non ci fosse l’azione delle parrocchie, delle Caritas, Milano e i comuni limitrofi non sarebbero di grado di reggere –; poi c’è la politica, le Istituzioni che devono promuovere politiche equilibrate su come affrontare il contesto delle situazioni di guerra in atto e del terrorismo. Bisogna fare una politica internazionale a livello mondiale sull’immigrazione che è e, per ora, rimarrà un problema strutturale. Occorre un progetto di inserimento governato (che già sta avvenendo “a macchia di leopardo” nel nostro Paese), magari attraverso lavori socialmente utili per chi arriva; infine, deve esserci la società civile. Penso che, così, in qualche decennio potremmo farcela».
Si affronta anche, e non potrebbe essere altrimenti, la questione della reciprocità, specie dopo l’episodio della mancata visita di una scuola al Museo dove è esposta la “Crocifissione bianca” di Marc Chagall.
Anche in tale contesto, l’analisi di Scola è definita da un concetto-chiave: «Dobbiamo superare l’idea della laicità alla francese che non funziona più in una società plurale che, per questo, è tendenzialmente conflittuale. Bisogna superare il concetto di laicità come creazione di spazi neutri. Ad esempio, io sono profondamente convinto che una società fondata sulla famiglia, basata sul matrimonio fedele e aperto alla vita, è una società sana. Se io non propongo questa tesi con chiarezza, senza imporre nulla a nessuno, tolgo qualcosa alla società. È profondamente sbagliato non fare il presepe se i ragazzi lo vogliono farlo, così come i ragazzi musulmani potranno esprimersi nelle loro feste. Bisogna che tutti si confrontino e comunichino senza pretese egemoniche: ciò fa interpretare in maniera realistica la reciprocità che deve essere chiesta dai politici e non dai Vescovi. Distinguere nell’unito è una forza della nostra cultura occidentale».
Il pensiero è anche per i prossimi “Dialoghi di Vita Buona”, al via il 24 novembre.
«Lo spunto è nato dalla giusta passione per Milano, dal desiderio di operare un confronto laico e sistematico che non escluda nessuno. Perché non creare dei luoghi in cui questa situazione di cambiamento di epoca sia presa in esame? Ne ho parlato con il filosofo Massimo Cacciari e si è arrivati a invitare una trentina di personalità che hanno costituito un Comitato scientifico, che ha lo scopo di creare processi di riflessione da portare, poi, sul territorio – centinaia di centinaia i Centri culturali diffusi in Diocesi – intorno a ciò che si dibatterà. L’obiettivo è quello di ritrovare un’anima a Milano, come avevo detto tempo fa. Un poco si strada l’abbiamo fatta. Per esempio, su Expo ho qualche riserva, ma è innegabile il suo successo e che sia stata una iniezione di forza. Milano ha una vocazione da cui non può prescindere: è metropoli, e tutti dobbiamo prenderne e coscienza. Le forze sane sono in tutti coloro che hanno a cuore la ricerca di senso», conclude il Cardinale, che suggerisce che dedicherà il prossimo “Discorso di alla Città” di sant’Ambrogio proprio a misericordia e giustizia.