Il cardinale Scola ha concluso, con un suo intervento, l’affollato Convegno “Diritto, Misericordia, Giustizia”, svoltosi a Palazzo di Giustizia di Milano. L’Assise, promossa dalla Libera Associazione Forense e dall’Ordine degli Avvocati di Milano, ha visto l‘alternarsi di qualificati interventi che hanno definito il senso di un’integrazione possibile tra giustizia e misericordia

di Annamaria BRACCINI

polizia/image

«Mi piacerebbe che quanto è emerso oggi fosse comunicato di più alla gente comune, perché, in vista della costruzione della nuova Europa, o almeno per impedirne il disfacimento, il dibattito sul rapporto profondo tra giustizia e misericordia possa diventare patrimonio condiviso». 
A dirlo con chiarezza, indicando la frammentazione dell’uomo di oggi e la necessità di una ricerca di senso che, «nel rispetto della libertà di tutti, crei civiltà», è il cardinale Scola che conclude   l’affollato Convegno che si svolge nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano. Il tema è, appunto, quello di “Diritto, Misericordia, Giustizia” e l’incontro è organizzato dalla Libera Associazione Forense e dall’Ordine degli Avvocati di Milano. 
«Nonostante la differenza di qualità tra giustizia e misericordia – riflette subito l’Arcivescovo  – i due termini non solo hanno punti di incontro esteriore, ma emergono l’una dall’altra. Se, infatti, il limite è l’espressione dell’umano – tutti i giorni ne abbiamo consapevolezza –, la difficoltà è coniugare una regola che deve essere universale, con un peccato, una colpa che è sempre singolare, dell’individuo».
Dunque (il riferimento è al Discorso di Sant’Ambrogio), è la giustizia umana stessa a richiedere un “di più”, essendo consapevole dei suoi limiti». 
In questo senso, la misericordia e quel “di più” perché è un’assunzione di rischio, è il porre in atto qualcosa di non obbligato, ma che fa leva sulla libertà delle persone e, in prospettiva, su una vita più buona per l’individuo e per la società. È la giustizia stessa dal suo interno, proprio per essere giusta e perché possa giustificarsi di fronte alla società, a chiedere ciò, in vista di risanare, rinnovare e rendere più completi, colui che ha commesso il reato, la vittima e la società». 
Questo è il concetto da approfondire, suggerisce il Cardinale che delinea l’idea del dono come strada per capire la relazione misericordia-giustizia, «a patto che riusciamo a scorporarla dall’idea corrente di dono come scambio». Il dono, invece, in tale prospettiva è «presa di iniziativa libera, verso chi ha compiuto un reato nella convinzione che il “gratuito” cambia l’uomo», rendendolo  migliore e più aperto agli altri. 
Il pensiero di Scola va alle tante sue visite in paesi anche piccoli della Diocesi: «Mi colpisce sempre che, ovunque, vi siano decine se non centinaia di Associazioni e gruppi di volontariato impegnati nei più vari settori. Penso che la società civile italiana sia la più ricca di Europa. Dobbiamo dirlo: mettere parte del tempo libero per gli altri – pensiamo alle banche del tempo – porta al bene. La misericordia non toglie nulla alla giustizia che ne riceve luce restando se stessa, con un’aggiunta di libertà. Questo è ciò che da qualità alla civiltà. Non si può fare un’Europa solo sull’Euro, altrimenti dove è il senso dell’Europa stessa?», si chiede, infine, tra gli applausi, l’Arcivescovo. 
Temi sui quali l’Arcivescovo torna, a margine, con i giornalisti, sottolineando la possibilità che la giustizia venga integrata dalla misericordia». Di fronte alla denuncia di alcuni avvocati, riguardo all’inumanità di imputati in cella durante i processi, il Cardinale nota: «Anche a me non pare molto umano. Bisogna che sia sempre rispettata la dignità della persona. Credo che il nostro mondo, con un lavoro che deve essere fatto, debba trovare le strade per un recupero di chi ha sbagliato, per non scartare nessuno».   
Questione, come molte altre, emerse dal Convegno, in cui il presidente del Tribunale, Roberto Bichi, parla della « necessità di nuovi percorsi di recupero e di nuovi strumenti per la carcerazione». 
Parole cui fa eco l’appassionato intervento di Giovanni Canzio, primo presidente della Suprema Corte di Cassazione, che scandisce: «Perché la rappresentazione della giustizia è anche quella della Dea bendata?. Il modello è Cristo bendato e deriso che ricorda a noi che ci sono persone giornalmente ingiustamente condannate e derise. Il termine dignità è richiamato, accanto a quello di solidarietà, nella nostra Costituzione e dovremmo vantarcene. Il giudice, quando tratta della vita umana, della salute, dei rapporti tra scienza e diritto, opera scelte valoriali. Occorre, con umiltà, chinarsi di fronte alla sofferenza della singolarità di ogni caso. La bellezza del Diritto non formalistico è qui». 
Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, giudice che deve, cioè, controllare ciò che l’uomo condannato è diventato attraverso il suo percorso di pena, da parte sua chiarisce: «Sarebbe bello che il processo penale fosse un progetto da portare avanti nelle declinazioni del cambiamento della persona. Per fare questo dobbiamo leggere il cuore dell’uomo. Solo la pratica della misericordia può essere uno strumento privilegiato per svolgere il nostro lavoro». 
«Io sto sul fronte, perché la vera pena, molte volte, è la custodia cautelare, l’informazione mediatica e il processo. Il nostro sistema penale non funziona perché non c’è nemmeno il presupposto di una misericordia, di un impegno, di una cultura e di una passione civile», spiega l’avvocato Nerio Diodà. «Fino a quando il meccanismo penale sarà solo di tipo retributivo e non vi sarà una definitiva formazione culturale, che è appunto il nuovo umanesimo, la via della giustizia riparativa non sarà possibile. Dobbiamo essere i “facilitatori” di un sistema virtuoso e, in questo, il Papa ha dato ai laici un segnale inequivoco:  o si cambia con formazione nuova o la complessità e la nebbia andranno sempre più addensandosi». 
Accanto a Diodà, annuisce convinto Massimo Parisi, direttore della Casa di Reclusione di Bollate, un esempio di sostenibilità penitenziaria indicato anche dall’Unione Europea. Dice Parisi:  «Nell’opinione dominante il carcere è semplicemente annientare la persona. Noi cerchiamo di resistere a questa deriva. Negli ultimi anni sta cambiando qualcosa perché si realizza una maggiore attenzione al percorso detentivo, con la responsabilizzazione della persona, il rapporto dialogico tra l’Istituzione e il detenuto. Sperimentare e l’unica via». Basti pensare che nella struttura di Bollate su 1100 reclusi, quasi 200 lavorano all’esterno. «È un grosso rischio, ma bisogna correrlo, creando, però, rapporti strutturali tra il carcere e il territorio. Crediamo che la sperimentazione del bene, facendo attività gratuita per altri, secondo l’applicazione dell’articolo 21, sia utile. È un mezzo per mutare la cultura e un modo in cui misericordia e giustizia riescono a convergere». 

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