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Redazione
La strada che scende dall’altopiano di 1200 metri fino ai 200 del fiume Zambesi non mi è mai piaciuta. Sono 120 chilometri con poche capanne sparse qua e là. Passo sopra i ponti guardando ancora ai ruderi della guerra (erano stati fatti saltare con dinamite o bombardati), scendo con cautela le ripide discese ancora una volta disseminate di carcasse di camion usciti fuori strada e poi mi trovo imbottigliato da 8 enormi Tir. Siamo in Africa, ma questi elefanti di ferro mi piacciono poco e mi trovano impreparato.
Sono a poche centinaia di metri dal fiume Zambesi che fa’ da confine tra gli stati di Zambia e Zimbabwe. Un confine rimasto chiuso per 20 anni ed ora è uno dei posti di traffico commerciale tra i più intasati d’Africa. E’ lì che la mia Land Cruiser si trova due Tir davanti in manovra, due parcheggiati a destra, due parcheggiati a sinistra e due che mi sospingono da dietro suonando i loro lugubri clacson, mentre io fatico a trovare un varco verso la Missione di Chirundu. Davvero un attimo di paura, come se fossi nel super traffico di Milano, quando piove o c’è un corteo di leoncavallini!
Mi salva un poliziotto che subito mi riconosce chiamandomi per nome: «Oh, father Antonio, ben tornato tra noi! Qui è tutto cambiato, c’è la pace, ci sono gli affari, c’è un altro ponte tutto nuovo e i camion sono a migliaia, stia attento e anche tranquillo, la deviazione per la missione è cento metri più avanti, a sinistra!». Un grazie in ciniangia mi viene fuori superspontaneo: “Zikomo kwambiri!”
La calma del maestoso fiume Zambesi mi rasserena subito, tanto più che ad aspettarmi a braccia aperte c’è fratel Oreste, un piccolo simpaticissimo missionario di 85 anni, lì sulla riva da 31 anni: ne ha vista di acqua scorrere!
NEI VILLAGGI DELLA VITA
Ripenso ai villaggi del fanciullo, alle città dei ragazzi, a Nomadelfia, alla casa dei mutilatini di don Gnocchi, ai Martinitt e vedo la fantasia-carità moderna chinata sugli orfani della peste dell’Aids. Non c’erano “orfani” nell’Africa fino al 1986, e se c’erano erano assorbiti dalla “grande famiglia". Ora ci sono e sono tanti e non si possono lasciare per le strade della città o nei villaggi della savana: si raccolgono con amore e si costruisce per loro “il villaggio della vita”.
E’ suor Agata che al tramonto del sole mi fa’ vedere la nuova parte dell’ospedale (un gioiello davvero!) di Chirundu. «Venga a vedere il villaggio nuovo». Non m’aspettavo di vedermi circondato da tante bambine – una più piccola e più vivace dell’altra – sbucate dalle loro nuove capanne disseminate in uno spazio che comprende anche l’orto per la verdura e un bananeto.
Ogni bambina ha la sua storia di sofferenza ma questa non si vede sui loro volti e nei loro sorrisi, nel loro chiacchierare curioso e nel saltellare qua e là in attesa della cena che tre mamme stanno preparando per loro. Anche queste “mamme” hanno le loro fatiche sulle spalle, ma si sono davvero rimboccate le maniche allargando gli spazi delle loro famiglie.
Di questi “villaggi della vita” ne incontrerò altri quattro, uno più interessante dell’altro per come sono nati e per come sono portati avanti con il coinvolgimento di tanti appassionati genitori adottivi. Certo non mi è sfuggito il velo di tristezza che anche questi bambini hanno, oltre la loro vivacità.