A Città studi, dove ero nato e ho fatto le prime tre classi elementari, non frequentavo l’Oratorio. È stata quindi per me una sorpresa, in quarta elementare nel 1950, iniziare a frequentarlo nella parrocchia di San Paolo, dalle parti di Niguarda, dove mi ero trasferito con la famiglia. Don Franco Redaelli, assistente dell’Oratorio San Domenico Savio, è stato il prete della mia adolescenza e della mia giovinezza, con il quale ho maturato la scelta di entrare in seminario.
Redazione
La prima esperienza che ho fatto è stata quella di essere chiamato per nome. Che vuol dire? Trovare qualcuno che ti chiamava per nome e che ti stava dietro in maniera completamente gratuita era una cosa sconvolgente: ma chi glielo faceva fare? Poteva benissimo, il prete, fare altre mille altre cose che non star dietro a una banda di ragazzini come noi.
Chiamati per nome. Questa è una delle cose che metterei in epigrafe a questa memoria sul mio Oratorio. L’aver incontrato persone capaci di un servizio gratuito, di una pazienza infinita, di riprendere un discorso. Io ricordo di essere tornato in Oratorio, forse avevo 13-14 anni, dopo un’estate di quelle sbandate da adolescente, e trovo il prete che mi dice: «Oh, ma guarda che ti aspettavamo». «Aspettavate me? Volevate me?». Chiamati per nome e accolti gratuitamente, da chi era qui per aiutarci a crescere.
Ho imparato a servire in Oratorio, in primo luogo perché mi piaceva: quando mi mettevano al bar a vendere le stringhe di liquirizia e le scarpine, ci godevo un mondo. Poi pian piano ho imparato che bisognava servire anche quando non ti piaceva, che bisognava preoccuparsi di un ambiente anche perché c’erano i più piccoli di te e che poi ti facevano aspirante-capo.
Credo di aver imparato in questo luogo il gusto di servire anche nella fatica, il servire che diventa una cosa bella anche e soprattutto quando pesa. Il servire è diventato, man mano che crescevo in questo Oratorio, una “presa in carico di qualcun altro”. Cioè io mi facevo carico di qualcun altro, così come il prete si era fatto carico di me e di tanti altri. E io credo che lì dentro si infila tutta una serie di doni che il Signore offre quando ti fa capire che il gusto pieno della vita non è l’amaro Averna, ma il riuscire a dare la vita a qualcun altro, anche in piccolissime cose.
Se posso fare ancora un piccolo amarcord di quand’eravamo giovinetti, il nostro amato “don” due volte la settimana, al mattino presto, ci chiedeva di scendere dal letto mezz’ora prima, di venire in chiesa prima di prendere il tram per andare alla scuola media o al ginnasio, e c’era mezz’ora di preghiera. E la cosa che più ricordo di questi incontri, che costavano anche, era che in chiesa trovavamo anche i giovani dell’Oratorio che ormai avevano preso l’abitudine di passare a pregare un po’.
Cosa penso oggi dell’ oratorio?
Che gli Oratori siano luoghi in cui si incontra una presenza, in cui si impara a mettersi in rapporto con tante altre cose, vien da sé. Questa è la prima cosa. Seconda cosa: credo che oggi più che mai l’Oratorio debba fare una difficile coniugazione tra due elementi: l’accoglienza e la proposta. Un’accoglienza eccessiva che rende esangue la proposta trasforma l’Oratorio in una piazza. Deve esserci una giusta, doverosa accoglienza di chiunque, ma nello stesso tempo l’Oratorio deve rimanere un luogo dove si fanno delle proposte, magari differenziate, in modo da riuscire ad essere accogliente per chi ci arriva, come ci arrivai io a 9 anni “venendo dalla Luna” e nello stesso tempo molto esigente per chi ha dei talenti da far fruttare. Un luogo accogliente e propositivo; né solo l’una, né solo l’altra di queste due cose.
Infine, un terzo aspetto: mi sembra che gli Oratori possanno avere un grande futuro se non saranno soltanto luoghi in cui si va a fare qualcosa, perché allora ci sono appunto le polisportive, le varie attività ricreative, culturali, eccetera, ma un luogo dove si propone qualcosa di vitale. Uso questa parola per dire un’esperienza nella quale si sia coinvolti come persone, per entrare in un cammino che sia di servizio e di crescita. Meno è soltanto un insieme di attività e di cose da fare, e più l’Oratorio diventa un luogo in cui si sperimenta un segmento reale della vita, delle relazioni, degli impegni, degli interessi.
Quarta e ultima cosa: non perdiamo la gratuità, perché se dovessimo perdere questo perderemmo l’identità stessa dell’Oratorio. Non si deve perdere il senso del volontariato educativo e della presenza gratuita di una comunità che riesce a produrre quel miracolo oggi raro – in una società nella quale si cerca di avere sempre un tornaconto – che è la gratuità, che è il dono, che è l’impegno di qualcuno che ti sta dietro, si prende cura di te, senza averne il minimo interesse o il minimo riscontro di utilizzo personale.
L’intervento proposto è una sintesi tratta dalla registrazione dell’incontro, tenuto a Milano nella parrocchia di S. Paolo in occasione del 70° dell’Oratorio San Domenico Savio, e mantiene il tono “parlato” e familiare di quella serata.