Nella Basilica di San Nicolò l’Arcivescovo ha incontrato i fedeli dei Decanati di Lecco, Primaluna e Alto Lario. Moltissimi i fedeli presenti, a cui il Cardinale ha raccomandato la forza di una testimonianza semplice e quotidiana. E sull’immigrazione, «chiediamoci dove è l’uomo europeo, ma anche dove è il cristiano»
di Annamaria BRACCINI
Il Padre Nostro recitato a una sola voce dalle centinaia di fedeli riuniti nella Basilica lecchese di San Nicolò e lo scambio della pace, come chiede l’Arcivescovo, aprono la visita pastorale “feriale” del cardinale Scola ai Decanati di Lecco, Alto Lario e Primaluna. «Quando c’è il Vescovo conviene approfittarne. Vogliamo ascoltarla subito», dice nel suo saluto iniziale monsignor Maurizio Rolla, vicario per la Zona III, cui sono accanto i tre Decani alla cui gente si rivolge la riflessione di Scola, particolarmente atteso qui, nella sua terra di origine.
È una consolazione molto bella vedervi così numerosi, dice infatti l’Arcivescovo. C’è chi viene da lontano, come dai paesi estremi dell’Alto Lario, «e questo vuol dire molto per la Chiesa che è compimento è realizzazione dell’io. Oggi si dice spesso che gli uomini di Chiesa sbagliano, ma un conto è il personale e un altro la persona eucaristica propria della Chiesa radicata in Gesù, che vive nel presente e che posso incontrare», spiega il Cardinale, che aggiunge: «Noi non stiamo facendo una riunione, ma un’assemblea ecclesiale che prolunga l’Eucaristia nella vita. Ciò comporta uno stile, che non è “inventare” sistemi perfetti perché la Chiesa vada meglio, ma significa giocarsi in prima persona attraverso una comunicazione semplice e di testimonianza. Alla passione e Risurrezione di Gesù non manca nulla, manchiamo solo noi». Un’assemblea, dunque, che si inserisce volutamente nella vita normale, “feriale”, perché tutti abbiamo a che fare, tutti i giorni con questioni come il dolore, la giustizia, la gioia «che non rendono nessuno lontano. È la fede – suggerisce l’Arcivescovo – che fa “la differenza”, perché è il compimento dell’umano».
Articolata in tre momenti, la struttura della visita è vòlta proprio a questo, iniziando (al contrario della visita pastorale classica) dal dialogo con il Vescovo, passando attraverso capillarizzazione ed elaborazione dei temi emersi, con l’aiuto dei Vicari di Zona, dei Decani, dei sacerdoti, dei laici, dei Consigli pastorali, per arrivare infine alle scelte da operare: «In questo cambiamento di epoca non sappiamo bene cosa fare di fronte a fenomeni che hanno trasformato il nostro modo di vivere, come le neuroscienze, le biotecnologie, il meticciamento di civiltà. Lo scopo è, allora, renderci avvertiti del cambiamento con gli occhi della fede».
E se questo è l’andamento, i contenuti si rinvengono nella Lettera Alla scoperta del Dio vicino, con la sottolineatura dei fondamenti della vita cristiana, i quattro pilastri decritti in Atti 2 42, 48 e la loro traduzione. Insegnamento su come ci si educa al pensiero di Cristo e all’amore, come lo si rende reale nell’Eucaristia e come lo si comunica negli ambiti dell’umana esistenza: «Bisogna ritrovare il gusto di riportare il dono bello della fede, senza limitazioni, nel campo che è il mondo, secondo quanto testimonia in modo straordinario il Santo Padre. Se il cammino è il mondo dobbiamo percorrere tutte le vie dell’umano». Il riferimento è, ovviamente, alla Lettera Il campo è il mondo, rispetto alla quale con Educarsi al pensiero di Cristo si è fatto un ulteriore passo: «Con il Consiglio episcopale milanese ci siamo accorti che era vero quello che, già nel 1934, descriveva il giovane Montini, ossia che la cultura aveva già eliminato Cristo e che questo divario tra fede e vita avrebbe attinto il popolo ed eroso la sua verità di fede. È ormai evidente che tale “fossato” si è allargato, come dimostra l’aver perso la fascia delle persone dell’età di mezzo, perché non si affronta più il quotidiano avendo il pensiero di Cristo. È questo il salto di qualità che dobbiamo fare».
Parte così il dialogo. Don Antonio, cappellano dell’Ospedale di Lecco, per la sua esperienza tra le corsie, dove viene accolto anche da persone di diversa religione che si sentono consolate dalla presenza di un sacerdote, spera che si amplifichi la coscienza di un incontro a 360°; Annamaria chiede come tenere viva questa attrattiva a livello personale, anche se si è sostenuti nella fede da un movimento; su come aprirsi ai giovani, Ugo osserva: «Dove sono stasera le famiglie non sempre regolari, non più come erano una volta. Alcune devono continuare a rimanere escluse?».
Da qui la risposta del Cardinale: «Evidentemente la natura del cristianesimo è cattolica, secondo il tutto e universale. È quindi una proposta che si rivolge a qualunque uomo di ogni tempo e cultura. È decisivo porre il fatto cristiano dentro la storia, perché Gesù è morto per tutti, prendendo su di sé i peccati di ciascuno. Non a caso, in questo senso, si è detto che il Venerdì santo dura sempre per tale assunzione. Ma è proprio nell’incontro con Lui che oggi ci siamo smarriti. Gesù è il Dio con noi, è una compagnia che ci guida verso il nostro destino, è compimento, è via, verità è vita. Generazione dopo generazione si è comunicato l’avvenimento del Signore, ma negli ultimi decenni abbiamo perso in maniera marcata questo senso di “avvenimento” che vivo e che perciò comunico».
Per una volta, in tale contesto, la globalizzazione può aiutare a “portare fuori” questo principio universale, ma alla condizione di cambiare, «avendo il pensiero di Cristo». Esempio è la famiglia, «che ha perso la capacità di essere fattore primo dell’esperienza bella, non tanto per fragilità morale, ma perché si è lasciata contagiare dalla mentalità consumista neopagana, perché è portata a considerare il quotidiano secondo la mentalità dominante». Per quanto riguarda quelle che l’Arcivescovo definisce «famiglie, tra virgolette, irregolari», l’invito è ad attendere il Documento finale del Papa dopo il Sinodo.
Gaetano, impegnato in Caritas, ricorda la necessità del farsi prossimo: «Se una Chiesa riesce a mettersi in ascolto dei più soli e “poveri” spiritualmente riuscirà ad ascoltare tutti». Suor Damiana, che lavora con quattrocento ospiti in un ricovero per anziani, scandisce: «In molti di loro, veri crocifissi viventi, ho imparato ad amare, dopo cinquant’anni di vita religiosa. Dateci una mano, anche se avete solo mezz’ora».
Due interventi che vanno «proprio nella direzione di quella educazione al gratuito cui tengo molto -. riflette Scola -. È il punto che fatica più di tutti a passare nella mentalità, non perché manchi l’esercizio caritativo o la fantasia della carità, basti pensare al Fondo Famiglia Lavoro. Sindaci come Cacciari a Venezia e Pisapia mi hanno detto che senza la Chiesa non riusciremmo a tenere vivo un minimo di welfare. Ma c’è un “ma”, perché crediamo di sapere già cosa sia amare, invece occorre impararlo e questo è esattamente l’educazione al gratuito. Bisogna che tale educazione trovi un ritmo fedele nel gesto semplice, con l’unico scopo di donare qualcosa di noi agli altri, non confondendo questo impegno con le opere che chiedono competenze e complessità. Se facessimo così impareremmo ad amare e probabilmente anche a comunicare. Su questo bisogna insistere con i giovani, perché il problema educativo dei ragazzi e dei bambini è un problema degli adulti. Infatti, il rapporto tra carità e cultura è debole, mentre la proposta deve essere chiara anzitutto in chi la offre: il “perChi” si compie un gesto. Si deve avere il coraggio di una proposta capace di creare mentalità e sentimenti profondi. L’educazione ha bisogno di uomini e di donne che escano dalla nebbia che ci circonda al risveglio ogni mattina, con il pensiero di Cristo e la preghiera. Noi adulti dobbiamo testimoniare questo senso bello della vita. Questo è il compito della Comunità educante. Pensiamo a che strumento straordinario sono gli oratori estivi!».
Alla fine, ancora tre sacerdoti. Don Filippo, impegnato in oratorio, che domanda sull’educazione informale indicata dal Papa per i giovani («è una condizione che dovrebbe caratterizzare normalmente la nostra esistenza», evidenzia il Cardinale). L’anziano don Fernando, che passa ore in confessionale, chiede di valorizzare il Sacramento della Riconciliazione. «La Confessione è la più potente espressione della libertà personale, perché in quel momento possiamo essere noi stessi fino in fondo, diciamolo alla gente», la risposta. Don Aldo affronta il problema degli immigrati. Chiare le parole del Cardinale: «I processi storici accadono, non li decidiamo noi, possiamo al massimo intervenire per tentare di orientarli. L’ingresso dei migranti in Europa è un fatto strutturale, sarà doloroso e non è detto che non ci sia chiesto il martirio del sangue. Il cristiano deve prendere questi eventi nella consapevolezza che la Provvidenza di Dio guida la storia. Ma la domanda su dove sia il cittadino europeo ne sottende un’altra: “Dove sei tu, cristiano?”. Chiediamo la possibilità di convertirci, di cambiare: se non si cambia, non si cresce e una cosa che non cresce muore».
Sono trascorse ormai quasi due ore e, prima del saluto affettuoso della gente, ancora un auspicio: «Entrate nella Porta Santa che è anche in questa Basilica, ma non da soli. Riprendete questi temi in famiglia o con i vicini di casa partendo dalla vita, perché è questa che conduce al sapere della verità».