Redazione
Pubblichiamo la testimonianza di una giovane custode socio-sanitaria della Fondazione Don Gnocchi, in cui racconta l’esperienza di vicinanza a un anziano un po’ burbero, ma con tanta voglia di essere aiutato. La volontaria non solo riuscirà nell’impresa di farsi accettare, ma uscirà profondamente arricchita dalla relazione.
«Mio padre è un reduce della Campagna di Russia, ora è malato, vive solo. Io e mio fratello gli stiamo vicino, ma voi con la vostra presenza potreste dargli un aiuto quando noi non ci siamo». Ricordo bene la richiesta che mi era stata fatta dal figlio del signor Carlo che aveva aggiunto: «E’ un uomo introverso, forse potrà sembrarvi un po’ brusco, ha molto sofferto nella sua vita, poi da quando è morta la mamma la situazione è peggiorata».
Il primo intervento che concordiamo con il signor Carlo è l’accompagnamento all’ospedale per le analisi del sangue. L’appuntamento è previsto per le ore otto a casa del signor Carlo, ma al nostro arrivo lui è già di ritorno. Con l’ombrello in una mano per ripararsi dalla pioggia e l’altra impegnata ad impugnare il bastone che lo sorregge, cammina a fatica, il respiro è affannoso. Non accetta di buon grado l’aiuto dei giovani, così superficiali e perditempo, preferisce far da solo fin quando ne avrà la forza. I suoi occhi lucidi, però, mostrano infinita dolcezza, non ci respinge del tutto. Capiamo che ha voglia di aprirsi a noi.
Per guadagnarci la sua fiducia non ci sostituiamo mai a lui, gli offriamo il nostro aiuto e ci rediamo disponibili per le piccole commissioni. Un giorno mi chiama e con voce fioca mi chiede di andare in farmacia a comprare le sue medicine. Mi ringrazia infinitamente, mi dice che non vuole disturbare, ma proprio non ce la fa ad uscire di casa. Il signor Carlo ha il morbo di Paget. Alcune mattine si sveglia con dei dolori acuti che gli impediscono di muoversi. La casa del signor Carlo è in ordine, lui ci tiene a dirmi che si occupa di tutto: stende il bucato, prepara il pranzo.
Ha una grande dignità, accenna alla guerra, io faccio domande, per me è un libro di storia vivente. La voce gli trema, gli occhi si riempiono di lacrime, «la guerra è la cosa peggiore che esista al mondo, ma gli uomini invece di imparare continuano a fare del male», non insisto con le domande, ma gli dico che sono molto interessata ad ascoltare la sua storia. Un giorno mi chiede di sfogliare i suoi libri con le immagini della Russia e mi indica tutti i luoghi in cui era stato prigioniero, aveva trascorso alcuni anni in campo di concentramento. Mi racconta il rientro in Italia, chilometri e chilometri percorsi a piedi con pochi altri compagni di sventura. Ha molta voglia di raccontare, ma forse poca di ricordare le barbarie di cui era stato testimone.
Nutro profondo rispetto per quest’uomo forte e allo stesso tempo così fragile. Ormai ci ha aperto le porte della sua casa. Mi mostra le foto della sua famiglia , di sua moglie e mi racconta la storia dell’incontro con il grande amore della sua vita. Il figlio del signor Carlo si dice meravigliato del fatto che il padre burbero sia riuscito ad instaurare un rapporto con noi. Nonostante ciò il testardo signor Carlo continua a voler essere quanto più possibile autonomo, spesso lo vediamo percorrere la strada al ritorno dal supermercato con la borsa piena. Gli corriamo incontro: «Ma perché non ci ha chiesto aiuto?» domandiamo, lui risponde con un gran sorriso e ci cede volentieri la borsa.
La relazione d’aiuto instaurata con il signor Carlo è stato un vero e proprio scambio tra due generazioni: pian piano siamo diventati dei punti di riferimento per lui che, in cambio, ci ha raccontato una parte di storia di cui era stato un vero attore, carica di esperienze che ha voluto condividere solo con i veri amici.
Un custode socio-sanitario della Fondazione Don Gnocchi