Redazione
di Silvano Stracca
Nel marzo del 1992, sul quotidiano torinese La Stampa, appare un articolo di Mikhail Gorbaciov, già consegnato alla storia dai mass media come il demolitore del sistema sovietico, che rievoca uno dei gesti più simbolici della fine del comunismo, la stretta di mano con Papa Wojtyla in Vaticano il 1° dicembre 1989, tre settimane dopo il crollo del muro di Berlino.
«Tutto ciò che è successo nell’Europa Orientale in questi ultimi anni – scrive il padre della perestrojka – non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale». Pochi mesi dopo l’incontro con l’ex leader comunista, nell’aprile del 1990, il Papa va a Praga per suggellare la “rivoluzione di velluto” che ha spazzato via senza spargimento di sangue uno dei regimi più duri nella repressione dei diritti umani.
Quel giorno, sulle rive della Moldava, il Papa dei diritti dell’uomo riassume il senso delle rivoluzioni del 1989: «Varsavia, Budapest, Berlino, Praga, Sofia, Bucarest sono diventate le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà», dopo quasi mezzo secolo di ferree dittature imposte dal Cremlino, che, in nome della giustizia e dell’uguaglianza, violavano la libertà e la dignità degli individui e della società civile.
Il “pellegrinaggio” verso la libertà dei popoli oltre la cortina di ferro era iniziato dieci anni prima, con la decisione di Karol Wojtyla di tornare in patria per lanciare la sua sfida all’ideologia ateistica. «Non si può escludere Cristo dalla storia dell’uomo», grida a Varsavia il 2 giugno 1979, davanti a un milione di persone. Da quel momento la Polonia – con Solidarnosc di Lech Walesa che guida gli operai di Danzica in sciopero dietro il ritratto della Madonna Nera di Czestochowa – diventa l’epicentro di un terremoto epocale destinato a sovvertire la fine della divisione del mondo tra Est e Ovest tracciata a Yalta.
Nei viaggi nelle terre dell’ex impero, il Papa spesso ribadisce una sua convinzione: nel crollo del marxismo ateo si può scorgere il digitus Dei, il dito di Dio. Sovente allude a un «mistero», addirittura a un «miracolo», parlando del collasso di un potere che sembrava avere per sé i secoli. Allo stesso tempo, però, Giovanni Paolo II invita a guardarsi da eccessive semplificazioni: «Sarebbe semplicistico dire che è stata la Provvidenza Divina a far cadere il comunismo. Il comunismo come sistema è, in un certo senso, caduto da solo. È caduto in conseguenza dei propri errori e abusi. Ha dimostrato di essere una medicina più pericolosa e, all’atto pratico, più dannosa della malattia stessa. Non ha attuato una vera riforma sociale, anche se era diventato in tutto il mondo una potente minaccia e una sfida. Ma è caduto da solo, per la propria immanente debolezza».
Durante la visita nell’autunno del 1993 nei Paesi baltici, la prima in territori ex sovietici, il Papa elenca i «mali» del marxismo. In primis, l’ateismo militante, «un ateismo offensivo anche dell’uomo, alla cui dignità sottraeva il fondamento e la garanzia più solida». A quest’errore altri se ne aggiungevano, come «la concezione materialistica della storia, la visione aspramente conflittuale della società, il ruolo “messianico” attribuito al partito unico, padrone dello Stato. Tutto convergeva perché questo sistema, nato per liberare l’uomo, finisse per renderlo schiavo».
Gorbaciov, in un’intervista per il venticinquesimo del pontificato, concorda con l’implacabile analisi del Papa: «La sua critica dell’assenza di libertà individuali nel sistema politico sovietico fu giusta. Io stesso, che pure vi ero nato e cresciuto, ero giunto a conclusioni analoghe e per questo mi ero impegnato a riformarlo. Ma c’è sempre, nelle parole di questo Papa, una sincerità e una coerenza che non si trova in altri critici del comunismo: cioè Giovanni Paolo II denuncia la mancanza di libertà dovunque si manifesti, nel comunismo, ma anche nel capitalismo».