Il cardinale Scola ha compiuto la sua terza Visita Pastorale per la Zona I - Milano, incontrando i fedeli dei Decanati Turro e Venezia. Moltissima la gente riunitasi nella parrocchia del Santissimo Redentore, per un’assemblea ecclesiale in cui si sono affrontati tanti e diversi temi, anche di stringente attualità

di Annamaria BRACCINI

Decanati Turro e Venezia

Diciassette parrocchie in totale, tra cui due Comunità pastorali, oltre centomila abitanti, per “Turro” e quarantaduemila per “Venezia”, diffusi in un’ampia e popolosa area metropolitana che copre zone anche complesse dal punto di vista sociale, come i viali Monza e Palmanova e parte delle vie intorno alla Stazione Centrale. 
Sono questi i “numeri” e le caratteristiche prime dei due Decanati della Zona I- Milano che il cardinale Scola incontra congiuntamente, presso la parrocchia del Santissimo Redentore, per la sua Visita pastorale “feriale”, la terza che compie in città e che porta a quota diciassette il numero dei Decanati in cui si è già recato. 
Accanto all’Arcivescovo ci sono i due Decani, don Franco Amati di “Turro” e don Natale Castelli di “Venezia” (un po’ il padrone di casa perché è il parroco del “Redentore”) con il vicario episcopale di Zona, monsignor Carlo Faccendini che, nel suo saluto iniziale, dice: «Ciò che muove la Visita pastorale è una manifestazione di affetto e di interesse, un desiderio di conoscerci. Il Vescovo viene perché vuole compiere, con il suo popolo, un cammino di comunione e, quindi, ecclesiale, un’esperienza di Chiesa a tutti gli effetti».  
E se un primo momento della Visita «è l’ascolto fatto di dibattito e di confronto e un secondo indica la capillarizzazione delle provocazioni che emergeranno dilatandole nelle Comunità, il terzo step si attuerà nel determinare insieme i passi concreti da compiere». Uguale per tutta la Diocesi, la struttura della Visita e così pure l’obiettivo: «Tenere la fede sempre in rapporto con la vita perché, seppure vi è oggi una fede viva, feconda e consapevole, questo legame inscindibile non sempre riesce a essere capito e vissuto, finendo per ragionare solo secondo ciò che insinuano i media e la televisione. Se le nostre parrocchie riusciranno a fare una passo avanti per colmare questa rottura, la Visita pastorale raggiungerà il suo scopo». 
E la riflessione del Cardinale parte, allora, subito «da un ringraziamento per la disponibilità delle tante persone che affollano la chiesa del SS Redentore».  
“Fuori”, tra i locali e il traffico di Corso Buenos Aires, si respira il tipico disordine urbano del sabato sera, dentro, tra le navate affollate, è un’assemblea ecclesiale quella che si riunisce, prolungamento dell’Eucaristia domenicale, fatta «di ascolto di fecondazione, di un parlare positivo, di comunicazione reciproca suscitata dalla presenza dello Spirito, di condivisione», auspica l’Arcivescovo. 
Nella tensione a edificare comunione all’interno della Chiesa e, con le debite distinzioni, della società, i quattro pilastri definiti in Atti 2, 42-47 – la liturgia illuminata dalla Parola di Dio, l’educazione al gratuito, l’educazione ad avere i sentimenti di Gesù nel vivere la vita e la comunione – sono, così, le coordinate in cui si inserisce il dialogo.  
Giuliano chiede cosa significhi oggi andare verso le periferie esistenziali, in un mondo in cui prevale la frustrazione, la difficoltà di crescere i figli e i rapporti familiari sono sempre più precari; Manuela, interroga su come porci di fronte alla massiccia presenza di immigrati, viste le molte le realtà caritative e di accoglienza presenti in questi due Decanati; Alessandra sottolinea il contesto di scristianizzazione e di smarrimento del linguaggio  religioso di Milano.
Proprio da quest’ultima domanda Scola avvia la sua risposta con una premessa. «Personalmente credo che non ci sia, almeno nella storia dell’Occidente europeo, un’epoca migliore di un’altra. Dobbiamo sentire il tempo che si stiamo sperimentando come “un pugno nello stomaco” che ci fa capire che la storia è nelle mani di Dio. Qualunque sia l’epoca, qualunque sia la modalità con cui la impattiamo, occorre, infatti, avere speranza, perché altrimenti si cade nel lamento. Un atteggiamento che comporta il rischio grave di “bloccarci” nei rapporti, mentre, per sperare, bisogna essere felici e noi lo siamo perché abbiamo incontrato qualcosa, Qualcuno, di bello e di buono, il Signore. Per questo la speranza, la virtù bambina per Péguy, porta per mano le altre due: la fede e la carità. Come dice il Papa, dopo la caduta dei Muri, non siamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento di epoca, basti pensare alle tecnoscienze, agli sbalorditivi passi avanti nel progresso delle biotecnologie, alla civiltà delle reti, al mutamento dell’economia e della finanza. Di fronte a tutto questo, siamo come un pugile sul ring che barcolla dopo i colpi ricevuti, ma che si rialza: questa è la speranza». 
Anche sull’immigrazione le parole dell’Arcivescovo suonano come un salutare richiamo di realismo: «La storia procede attraverso processi che non domandano il permesso per avvenire, come dimostra appunto l’immigrazione, fenomeno per cui alcune stime parlano di cinquanta milioni di persone che attualmente sono in movimento nel pianeta. Possiamo solo orientare i processi, non dominarli, specie se non si tratta più di un’emergenza, ma di una vicenda della quale la maggioranza di noi non vedrà la conclusione» 
La soluzione per rendere almeno sostenibile il trend dei flussi e per non alimentare pericolose tensioni sociali? Certamente difficile, ma possibile, partendo dalla «coscienza che Dio ci ha fatti come un’unica famiglia umana, dove per noi europei, il meticciamento è un invito al risveglio e una provocazione. Andare verso le periferie, percorrere tute le vie dell’umano, deve vederci capaci, in nome della condivisione che ci ha insegnato Gesù morendo sulla croce, di accoglienza equilibrata verso tutte le forme di povertà, anche quella che Francesco chiama teologica, la lontananza da Dio». 
Per questo occorre un coinvolgimento a livello personale, suggerisce il Cardinale. Il riferimento è al pilastro dell’educazione al gratuito, «offrendo una parte di noi stessi per imparare ad amare», magari facendosi prossimo con gesti apparentemente “piccoli” ma da coltivare «con una certa regolarità», come occuparsi delle persone più in difficoltà, andare a giocare a carte con degli anziani o aiutare i ragazzi musulmani a integrasi nell’oratorio. 
Poi ancora domande: Filippo – «come aiutare le famiglie cristiane, anche le tante irregolari, a essere soggetti di evangelizzazione» –; Michele – «in un contesto di frammentazione, come incontrare veramente l’altro, valorizzando le esperienze di vita comunitaria che già vivono questo slancio? –; Matteo affronta il tema dei molti ragazzi che paiono estranei, non essendo interessati alla proposta cristiana. Una questione fondamentale e palpabile in una area come quella in cui si è, dove vive la popolazione universitaria del Politecnico. 
«Come hanno insistito i due Sinodi, la famiglia deve essere soggetto, ossia nelle singole famiglie, per superare la frattura tra fede e vita, si deve affrontare l’esistenza quotidiana con la mens di Cristo. Tanto che, tornando dal Sinodo, ho pensato di andare personalmente a incontrare alcune famiglie per costruire con loro, in casa loro, un  dialogo costruttivo e diretto, a partire dai problemi concreti. E questo riguarda anche le cosiddette coppie irregolari, divorziati e risposati» racconta, l’Arcivescovo. «Sul resto, come la possibilità di ricevere la comunione sacramentale, aspettiamo il documento del Papa».
«Bisogna perseverare nell’esperienza bella degli incontri, perché da questo nascono la Comunità Cristina, le parrocchie, i movimenti, i gruppi, la grande ricchezza di forme associative». 
Poi, un’osservazione precisa sui due Decanati: «Siete la prima grande fascia della periferia milanese, quella nata dalla prima emigrazione dal sud, dove oggi c’è la maggiore vivacità di Milano. Siate gli attori principali di questa zona che è un “cantiere” di elaborazione del domani. Si tratta di personalizzare l’incontro e, senza fare grandi strategie e liberi dall’esito, di permanere nella Comunità, costruita sulla nuova parentela che Gesù ha inaugurato tra noi, dilatando quella della carne e del sangue».   
Infine un terzo “giro”: si parla di come valorizzare la reale e preziosa risorsa dell’Eucaristia domenicale e di Comunità educante. 
«Il problema educativo si situa nella trama di rapporti in cui siamo immersi, che ci permette di vivere con letizia e serenamente, pur in una cultura piena di frammenti e narcisa che non sopporta di sentirsi dire “nel dolore lieti” o di amare i nemici. Facciamo di tutto per non perdere una virgola di piacere nella nostra esistenza, ma non capiamo questo. Ecco, invece, cosa significa avere i sentimenti di Cristo, sperimentare la misericordia come persone “intere”, capaci di resistere alla frammentazione a motivo della parentela nuova che vogliamo comunicare a tutti. Non vogliamo egemonizzare, semplicemente proponiamo la nostra idea, ad esempio, di famiglia, in una società dove ci sono visioni diverse delle cose. Sarebbe molto grave non dire quello che per noi è giusto: dobbiamo narrare e lasciarci narrare, perché la misericordia è l’espressione di un animo intero». 
E, dopo oltre un’ora e mezzo di confronto, un’ultima battuta con Martino, del “Gruppo Dicio” del “Redentore”, cioè i diciottenni che consegneranno al loro “Regola di Vita” nelle mani del Cardinale: «Vuoi delle “dritte”? Parlate di quello che vi sta a cuore perché la “Regola” è l’espressione dell’amore per Gesù, che è un fatto di libertà. Impegnatevi a fare un segno di croce la mattina, una preghiera a sera, cercate di capire come volere bene alla vostra ragazza, per non ridurla a uno strumento di piacere, ma rispettandone il volto e la sensibilità. Questo è l’amore».

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