Visita pastorale dell’Arcivescovo nel popolosissimo Decanato Seveso-Seregno. Ai fedeli, giunti in gran numero nella chiesa di Santa Maria Nascente a Meda, ha raccomandato una pastorale di insieme capace di affrontare le sfide di oggi
di Annamaria BRACCINI
Un Decanato nato il 9 settembre 2014 dall’unione di due, Seregno e Seveso, su un territorio intensamente popolato nel cuore della Brianza, che conta più abitanti di tutta la Valle d’Aosta. Cinque Comunità pastorali, un’Unità, una parrocchia, oltre 184 mila persone, un Consiglio pastorale decanale di cui fanno parte 41 membri. E, poi, scuole, strutture ospedaliere e socio-assistenziali, conventi e monasteri con una presenza massiccia di Ordini maschili e femminili, realtà associative e di volontariato attivissime nel contesto caritativo e culturale. Insomma, una realtà fondamentale, nella geografia non solo della Zona V della Diocesi, ma per l’intera fisionomia della Chiesa ambrosiana, che vive la sua prima convocazione pubblica corale come meglio non potrebbe fare, attraverso la Visita pastorale del cardinale Scola. Nella chiesa gremita di Santa Maria Nascente a Meda, facente parte della Comunità pastorale Santo Crocifisso, lo sottolinea il decano don Flavio Riva, che ricorda la prossima iniziativa unitaria, il 17 aprile, col Giubileo decanale celebrato presso la Porta Santa del Santuario di San Pietro Martire a Seveso.
«Grazie per questa bella occasione, che mi permette di vivere con voi un gesto a cui do tanto peso. La vostra, di essere qui, è una scelta di convinzione e quindi l’abbraccio ideale che mi offrite è un dono grande, un sostegno per il mio compito e per il Ministero di Vescovo in senso specifico», risponde l’Arcivescovo dopo gli applausi all’ingresso e il saluto di benvenuto. «Quando i Cristiani prolungano l’Eucaristia incontrandosi, sappiamo di essere convocati dallo spirito di Gesù risorto. Siamo una famiglia radunata nell’unità e questo dà un tono diverso alla modalità di espressione, per cui prendere la parola diventa un modo di edificazione della comunità e l’ascolto si fa ascolto di fecondazione», spiega, invitando i fedeli ad andare «ben oltre la curiosità, arrivando alla radice di un atteggiamento che ci spalanca a quell’esperienza di bontà e di verità che è l’incontro con Gesù». Questo lo “stile”, dunque, con cui sperimentare la Visita pastorale che, anche nella sua articolazione, ha un rilievo diverso dal consueto e fondamentale «perché, pure nel tempo della società delle reti, non vi è nulla che valga il “faccia a faccia”, espresso da quell’essere fisicamente insieme che scaturisce dall’Eucaristia ed è espressione di un realismo tutto cristiano». Appunto per questo, la scelta precisa di un ritrovarsi feriale intende avere il carattere di quella quotidianità di comunione – sottolinea Scola -, che inizia con la presenza dell’Arcivescovo, preparata dalla relazione che gli viene inviata, prosegue con l’elaborazione, sotto la cura del Vicario di Zona, dei Decani e dei Consigli pastorali, di una capillarizzazione missionaria (non può che essere così, di fronte alla maggioranza di battezzati che hanno perso la “via di casa”) al fine di individuare i temi più rilevanti da trattare in un confronto appassionato, per arrivare, infine, alla verifica del cammino emerso dalla Visita mediante l’espressione del passo che ogni comunità è chiamata a compiere. E tutto ciò realizzato a partire dal contenuto primo della Visita stessa, nata dalla consapevolezza che la scissione tra fede e vita – già richiamata dal giovane Montini negli anni Trenta del Novecento, a proposito della cultura – sia ormai divenuta un fossato.
Come mettere un freno a tutto questo? «Rendendoci conto di tale frattura, affrontando le circostanze e i rapporti, soprattutto a partire dai giovani, con i “fondamentali” della vita cristiana espressi da Atti 2, 42-47 e riattualizzati dalla Lettera pastorale Educarsi al pensiero di Cristo. C’è oggi il rischio di un affaticamento, una tristezza in Europa, di fronte alla quale vogliamo ritrovare il volto di Cristo, la sua mente, uno stile di vita che fa portare in letizia anche le prove più dure, perché sappiamo dove andiamo, seppure non conosciamo i passi verso la meta», osserva il Cardinale.
Si avvia così il dialogo tra domande e risposte: Davide della Comunità San Giovanni Paolo II di Seregno chiede della pastorale di insieme, qui, evidentemente, molto sentita; Luisa della Comunità San Pietro da Verona di Seveso, si interroga sulle scuole paritarie.
«La pastorale d’insieme, se le Comunità pastorali sono bene intese, rappresenta un evento profetico e il futuro ne mostrerà la bontà, anche se ci vorrà tempo – scandisce Scola -, perché fare Comunità è ben diverso dal parlare genericamente di pastorale di insieme o organizzare qualche iniziativa in comune. Bisogna fare in modo che questa esperienza diventi più proponibile, lasciandoci alle spalle l’idea che la Comunità nasca dalla mancanza di preti, anche se innegabile. Non è solo questo il suo scopo, ma è la missione della Chiesa, ossia lasciare passare il volto di Cristo in ogni ambiente dell’umana esistenza, senza perdere la fisionomia propria e la capillarità tipica delle parrocchie. È evidente che una proposta, per esempio, fatta ai giovani all’interno di una Comunità può raggiungere un numero maggiore di ragazzi e può farlo in maniera qualitativamente migliore e con più fascino». Il riferimento è alla necessità di una cultura della fede diversa, adeguata a leggere la presenza di Gesù come contemporaneo a ciascuno di noi. «In un cambiamento di epoca che non è semplicemente epoca di cambiamenti – basti pensare alle tecno-scienze, allo sviluppo delle biotecnologie, alla civiltà delle reti, alla mutazione della finanza e dell’economia, per cui 62 persone posseggono la metà della ricchezza del pianeta – dove è la giustizia? – si chiede l’Arcivescovo -. Occorre saper cambiare, con disponibilità alla rinuncia se si vuole bene alla Chiesa». Chiaro, allora, arriva il suggerimento di una lettura attenta a ciò che molto concretamente, è scritto nella Lettera pastorale, per esempio, sulla famiglia.
Poi, la risposta sul ruolo della scuola. «L’educazione, specie dei fanciulli, è un fatto fondamentale. Scattino a livello diocesano e intra-diocesano, solidarietà pratiche. Occorre fare ogni sacrificio possibile, dovessimo andare anche con le pezze ai pantaloni, per le scuole specie dell’infanzia e le materne, aprendoci a tutti, a 360°, come già avviene con i tanti bambini musulmani che frequentano i nostri oratori. Con il massimo dei sacrifici messi in campo, ma con sagacia e prudenza, dobbiamo comunque sostenerci, pur nelle difficoltà economiche».
Ancora domande e riflessioni, come quella di Ardua, della parrocchia Santo Stefano di Cesano Maderno, che insiste sul «tanto bene» e sugli spazi di bellezza e speranza che ci sono comunque nell’oggi e si interroga su come vivere il tempo di grazia del Giubileo. Filippo, della Comunità pastorale Santo Crocifisso di Meda, affronta la questione dei Centri Culturali.
«La mentalità distratta è il punto debole di oggi, perché la nostra è un’epoca di oblio del senso della storia, del valore della fedeltà, di Dio stesso, di Gesù. Domandiamoci che peso ha il Signore nella mia giornata, Lui che vuole bene a ciascuno di noi, che ci ha scelti a uno a uno prima che fossimo concepiti e che ci accompagna tenendoci la mano sotto il mento. L’io distratto è, appunto, l’io dimentico di questa presenza. Il primo modo per prendere sul serio la misericordia di Dio, che il Giubileo ci fa provare in questo anno, è liberarci da tale smemoratezza, magari invitando parenti e amici, battezzati, al gesto umile e semplice di oltrepassare la Porta Santa che ci libera da questa sorta di “Icmesa” (ossia di avvelenamento) dello Spirito. È vero, infatti, che c’è tanto bene, ma è la dimenticanza di Dio che ci impedisce di seguire Gesù nella comunità cristiana, pur con tutti i nostri limiti, e non fa conoscere la vera natura dell’amore che ha in sé il “per sempre”». Un tema – questo – carissimo al Cardinale che ammonisce: «Ci vuole serietà negli affetti e nel lavoro, equilibrio nella festa. Non dobbiamo abbatterci per le difficoltà inedite di oggi, perché questo è il tempo che Dio ci ha dato e non è un tempo “delle passioni tristi”, come diceva Spinoza, ma della speranza. Se siamo fraternamente solidali in Cristo, se viviamo la vita parrocchiale e, con le debite distinzioni, quella civile aiutandoci, abbiamo già visto la strada per non perdere il dono immenso dell’incontro con Gesù e perseverare in esso».
Un ragionamento simile riguarda anche la cultura, «che non è questione di libri, ma di qualcosa di vivo che la fede genera, per il solo fatto che spiega all’uomo chi è, come disse magistralmente San Giovanni Paolo II all’Unesco del 1987. Tuttavia, ciò che dobbiamo realizzare è un salto di qualità, anche perché i Centri culturali e le Sale della comunità sono strumenti preziosissimi per avere il pensiero e i sentimenti di Cristo, e, dunque, vanno curati e ben usati, senza paure, portando sul territorio i contenuti – l’auspicio è che così accada per i “Dialoghi di Vita Buona” promossi dalla Diocesi -, con l’obiettivo di essere un fermento continuo, capace di utilizzare tutte le forme espressive». Senza mai dimenticare che solo uno scambio di esperienza fa vivere: tale è la testimonianza, che non è solo il buon esempio, ma una conoscenza della realtà che diviene comunicazione di verità». Per questo l’Arcivescovo ricorda la tremenda vicenda dei cristiani perseguitati in Medio Oriente e la fede testimoniata dai profughi di Erbil, «persone provate dall’avere perso tutto, talvolta anche i propri cari, ma animate dalla speranza e dalla preghiera».
Infine, dopo un ulteriore giro di domande “libere” sulla mancanza di vocazioni, l’oratorio e la capacità di essere attrattivi per i giovani, la consegna finale, quasi a suggellare lo “stile” di una Chiesa in uscita e in grado di affrontare le sfide di domani: «Da dove viene l’attrattiva? Da un cuore largo che accoglie Gesù. Noi non siamo un’azienda, dobbiamo essere liberi dai risultati che sono nelle mani di Dio. Non siamo agit-prop che devono convincere. Il Cristianesimo è l’uomo nuovo e una comunità che non fa fiorire la persona non è tale. Per testimoniare bisogna incontrare persone vive, comunicando da esperienza a esperienza, da vita a vita: si pensi al ruolo fondamentale dei nonni – non solo baby sitters -, nell’educazione dei nostri piccoli».