Presso la sede milanese dell’Assolombarda, è stata presentata la Lettera Pastorale, “Educarsi al pensiero di Cristo”, presente il cardinale Scola. Molte le testimonianze durante l’affollato incontro trasmesso anche in streaming
di Annamaria BRACCINI
In un luogo di imprenditori – «una categoria che impara facendo e che pensa al futuro, in una prospettiva ormai, nel mondo globalizzato, necessariamente ampia», si presenta, davanti a un folto e variegato pubblico, la Lettera pastorale, “Educarsi al pensiero di Cristo”.
In prima fila, nella sede milanese dell’Assolombarda, siede proprio l’autore, il cardinale Scola, cui sono accanto i Vescovi ausiliari, i Vicari episcopali, sacerdoti, esponenti della società civile e, appunto, del mondo imprenditoriale. «Siamo convinti che il domani sia fatto di grandi città che competono. Noi non abbiamo una visione di città ideale, ma vogliamo avere un ideale di città e, dunque, vogliamo porci in questa ottica che è compito affascinante», dice, in apertura, Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda. «Questa Lettera, che parla a credenti e non credenti o, meglio, ai pensanti, è bella e utile a tutti, perché educa alla mentalità del metodo , aiuta la propensione ad affrontare i problemi». E tutto senza dimenticare, fa intendere Rocca, la concretezza, la realtà, dove la «mentalità è, comunque, un misto di sentimento e pensiero».
Un modo di leggere la Lettera Pastorale che intercetta quelli che sono due dei suoi punti forti, secondo quanto spiega, concludendo l’incontro, l’Arcivescovo stesso, dopo che sul palco si sono alternate voci e testimonianze diverse.
L’avvio, nella breve intervista che il giornalista di “Avvenire”, Alessandro Zaccuri fa al Cardinale è subito dal titolo, anzi da quell’“educarsi”, in cui il pronome è voluto e – come spiega Scola – «permette di mettere in gioco la nostra persona, perché non si può educare se non si è coinvolti personalmente»
Se l’educazione, infatti, «è un processo che va dalla culla alla bara, per noi uomini e donne di quest’epoca postmoderna l’idea è complessa. La preoccupazione dell’imparare facendo, non è, infatti, diffusa, ma la libertà senza il nesso con la realtà si narcisizza. Senza il rapporto con l’altro l’atto di libertà non si compie», suggerisce Scola.
È per questo che, nel contesto della dimensione culturale richiamata dalla Lettera, il “pensiero” e il “sentimento” di Cristo sono parole che vanno sempre usate insieme «in quanto il pensiero e la conoscenza del Signore non sono un pacchetto di nozioni».
Il “salto” culturale, appunto, che occorre fare è «comprendere che la cultura non è qualcosa di libresco, ma la dimensione di un’esperienza che giochiamo in tutti i rapporti e le circostanze della vita». Non a caso, Martin Heidegger diceva che siamo gettati nell’esistenza, o forse, sarebbe meglio dire “immessi”, tanto che «i molti “perché” dei bambini sono un modo in cui si cerca ,fin da piccoli, di porsi in modo critico di fronte alla realtà: questa è la cultura».
Ma qual’è la specificità ambrosiana, così come emerge dalla Lettera Pastorale? Chiara la risposta del Cardinale: «È straordinaria ed è fondata non solo su testimoni come sant’Ambrogio o san Carlo, ma sull’originalità del Rito, perché la potenza della liturgia, come irruzione nell’esistenza di Cristo, non è unicamente il culto, ma qualcosa di umanamente conveniente. La liturgia è il momento in cui un fatto irrompe dall’alto e spezza il nostro avvolgersi su noi stessi, eliminando l’individualismo. La liturgia è, dunque, un fattore-guida. Vi è, poi, la tradizione della Chiesa ambrosiana ancora oggi, feconda e fertile, e che lo sarà ancora di più percorrendo tutte le vie dell’umanità e facendoci consapevoli della dimensione metropolitana di Milano. L’educazione cristiana, il catechismo, il carisma della carità hanno un’imponenza e forza culturale straordinaria».
Insomma, il riferimento è ai tre cardini della Lettera: Famiglia, Chiesa e Carità. «lo dirò al sinodo – conclude l’Arcivescovo -, senza la famiglia il Cristianesimo si disincarna. Chi può portare il Vangelo nel quotidiano se non la famiglia, anche quelle ferite e in difficoltà? La famiglia, in quanto tale, deve diventare soggetto di evangelizzazione secondo quei diciotto “punti” che sono delineati nella Lettera».
«Non dimentichiamo che l’80% della nostra gente è battezzata: io ho scritto la Lettera per i tanti che hanno perso la strada di casa anche se battezzati».
E, infine, sull’icona biblica di Pietro, l’Arcivescovo riflette: «Ciò che mi affascina è quel “Mi ami tu?”, ma sono ancora molto lontano dall’averlo compiuto davvero, perché ciò implica il martirio, mentre siamo tesi a conservare in ogni modo la nostra vita».
Le testimonianze
E, così, l’intervento finale del Cardinale è quasi la sintesi e, insieme, la risposta alle testimonianze personali degli interventi, moderati da Zaccuri, come quella del presidente Rocca che aveva scandito: «Ho la sensazione che stiamo diventando sudditi invece che cittadini, aspettandoci quasi tutto dallo Stato, con una “nazionalizzazione” della vita morale. Al contrario, questa società, con le sue novità, può permetterci di trovare, senza pretendere soluzioni, una certa direzione».
È Laura Invernizzi, ausiliaria diocesana, docente in “Cattolica” e in Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, a tornare, analizzandola, sulla figura e il cammino di Pietro come discepolo.
«Il suo percorso è paradigmatico proprio perché non è lineare, è un itinerario che ha sintetiche intuizioni, ma anche di lentezze, si interseca di vertici e di abissi. La biografia di Pietro si presenta partendo da un incontro, determinato da uno sguardo che dona nuova identità – Cefa – e implica una chiamata. Chiamata a seguire il Signore che è il culmine del cammino, che giunge, però, dopo la Pasqua e l’esperienza del tradimento. Mi trovo come Pietro, tra sguardo iniziale e chiamata, e Pietro mi spinge a rileggere l’incontro con Gesù come urgenza di continua conversione. Sento come un imperativo non ridurre il pensiero di Cristo a moralità, ma spingere lo sguardo in profondità. Si tratta di entrare in quel particolare servizio che i credenti sono chiamati a svolgere nei confronti della cultura che ha come criterio discriminiate la vita donata».
Andrea Tornielli, notissimo vaticanista del “La Stampa”, fondatore e direttore di “Vatican Insider”, aggiunge, anche come padre di famiglia: «Occorre “sentire” con Cristo una cultura capace di istaurare la grazia di una sapienza nuova, la sorpresa di uno sguardo. Non è nulla di intellettualistico, ma si tratta di un pensiero in grado di amare e commuoversi come e con Lui. L’esperienza cristiana significa lasciarsi sempre ferire dalla realtà, essendo spiazzati dalle parole di Gesù. Ricordiamoci che si educa sempre per osmosi»
Per quanto riguarda i mass media, l’invito alla responsabilità. Lo dico, con la “Fìlotea” di San Francesco di Sales (che Scola citò al suo primo incontro a Milano con i giornalisti, raccomandando «di leggerla e farne tesoro»), «bisogna stare attenti ed educare anche i media cattolici che usano oggi sarcasmo e talvolta parole che trasudano odio».
Poi, don Giorgio Riva, parroco della popolosa e antichissima parrocchia di Sant’Eustorgio: «Se penso a quanto vedo e ascolto alle visite alle famiglie – scandisce -, mi azzardo a dire che ciò che cerca la gente si sintetizza in un bisogno e in una sfida di speranza, per cui valga la pena vivere e che sia accessibile a tutti così come il bisogno e la sfida di superare l’isolamento. Oggi è il momento del Vangelo, che mai come ora ci sostiene verso la speranza più grande, come è quella dei martiri. Il Vangelo riunisce i figli di Dio dispersi. Questa è la sfida della Chiesa tra le case, la parrocchia, a diventare noi per primi uomini nuovi, in grado di maturare speranza verso e nel segno del Vangelo. “Tiene” poco, oggi, il dovere: l’Evangelo, la bella notizia. invece, convince ancora. Seguendo la via della Croce, una via diversa che non è lastricata di “no”, ma di bellezza, sollecitati a cogliere sempre più la differenza cristiana, saremo autentici testimoni. È questo uno stile di comunione, di dialogo libero, franco e rispettoso, vivendo l’unità nella pluriformità. La parrocchia sia il luogo della missione, della comunione e della speranza dove si cerca di camminare insieme.
Infine suor Claudia Biondi, da tempo impegnata sulle frontiere più drammatiche di Caritas, per quanto attiene ai Rom, alla donne, alla prostituzione, alla Tratta e alla grave emarginazione: «Mi lascio fare la domanda che Gesù pone ai soli discepoli, “E voi chi dite che io sia?”. Il cammino di Pietro è quello di camminare con tanti inciampamenti. Vivo il rapporto tra carità e cultur, a partire dai tanti volti di chi fa fatica, ma anche dalla necessità di condividere vie ambrosiane di comunione. In molti anni trascorsi in Caritas, ho imparato che è fondamentale un rapporto intrinseco tra carità e cultura. Credo che lo slogan, “Una sola famiglia umana, cibo per tutti”, sia un sinonimo di famiglia. Non posso dire di credere in un unico Padre se non mi chino verso il fratello e sorella nel bisogno. È l’imperativo al fare di Caritas ambrosiana. Papa Francesco parla della cultura dell’indifferenza globalizzata: è esattamente ciò che dobbiamo sforzarci di trasformare, in questo credo stia una cultura pedagogica. Se, come dicono le statistiche più recenti, il 62% degli italiani non vorrebbe nemmeno un vicino di casa di etnia Rom, dobbiamo cambiare. Non siamo buonisti come dicono tanti -, cerchiamo di promuovere cultura come facciamo nella piccola bottega di sartoria, promossa da Caritas, dove sono impegnate molte donne Rom. Ciò testimonia l’uguaglianza che tutti condividiamo e speriamo che da ciò scaturisca una mentalità nuova secondo il Vangelo».