Redazione
A 25 anni dalla consacrazione episcopale, l’arcivescovo emerito ricorda gli anni del suo magistero milanese: il terrorismo e Tangentopoli, ma anche la “fame” della Parola da parte dei giovani e l’attenzione ai non credenti. «Sento di avere il mio gregge come prima, perché ogni giorno prego a lungo per i preti, i laici, le parrocchie, le iniziative diocesane. Mi sento ancora pastore solo che è cambiato il modo di esserlo: adesso il mio compito, importante, è quello dell’intercessione».
di Giuseppe Grampa
Quando non è a Gerusalemme, per quattro mesi l’anno il cardinal Martini vive a Galloro, cittadina sui Colli a sud di Roma, nella casa dei Padri Gesuiti. Qui lo incontro nel suo studio tappezzato di libri, sotto lo sguardo di una statua della Madonnina del Duomo di Milano. Dalle finestre, nei giorni limpidi si vede il mare.
La nostra conversazione inizia con il ricordo del giorno dell’Epifania, giorno della sua consacrazione episcopale, 25 anni fa…
Di quel giorno ho un ricordo un po’ vago perché tante erano le emozioni. Ricordo di esser stato invaso da una grande esperienza dello Spirito, fonte di gioia e fiducia. Ricordo la preghiera prostrato a terra e l’invocazione dello Spirito e l’omelia del Papa Giovanni Paolo II: l’episcopato come sacramento della strada. Allora non capivo bene, poi l’ho compreso come impegno a percorrere le strade degli uomini, ascoltando e portando la fede e la speranza che è in noi.
Nei primi tempi a Milano lei ha davvero percorso le strade della città…
Sì, avrei voluto una maggiore libertà di manovra nell’andare liberamente per le strade, nei negozi, a fare gli acquisti, visitare i miei preti in casa. Poi vidi che non era possibile, perché ogni mio movimento doveva esser previsto… Il ricordo che mi è rimasto fin dall’inizio è quello di un grande desiderio della gente di vedere, incontrare il vescovo. E quindi da parte mio lo sforzo di rendermi il più possibile presente. Per questo ho dedicato molto tempo alla visita pastorale, percorrendo una volta l’intera diocesi e una seconda volta una buona metà. Ma in certi luoghi sono tornato spesso. Il prevosto di Sesto San Giovanni ha contato circa 50 mie visite in quella città.
Fin dai suoi primi giorni a Milano si è confrontato con il terrorismo…
Il giorno dopo il mio ingresso, era l’11 febbraio 1980, mi recai nella chiesa della Madonna di Lourdes e incontrai centinaia di malati. Alcuni giorni dopo, mentre ero in riunione, ricevetti la notizia dell’assassinio in Università Statale del giudice Galli. Decisi di recarmi subito e mi inginocchiai in quel corridoio dove giaceva a terra il corpo coperto da un lenzuolo. Fu il primo impatto diretto. Poi, purtroppo, l’esperienza si è ripetuta. Ricordo l’assassinio di Walter Tobagi. Ricordo il clima di paura e di incertezza perché chiunque poteva esser colpito. Quello che apprezzai di Milano in quei giorni fu il coraggio, la resistenza civile, la voglia di non cedere. Di quegli anni ricordo un episodio che allora fece molto scalpore: la consegna al vescovo delle armi da parte dei terroristi. Quell’anno, per Natale avevo visitato i carcerati a San Vittore, anche alcuni dei cosiddetti irriducibili. Uno di loro mi chiese di battezzare il suo bambino che era nato in carcere in circostanze eccezionali. Dissi subito di sì, contro il parere di chi mi stava vicino e credo che quel gesto fu per loro molto significativo. Poco dopo numerose armi vennero consegnate in arcivescovado. Da allora l’attività dei terroristi si affievolì fino a ridursi a nulla.
Nei suoi anni Milano ha cambiato nome: è diventata Tangentopoli…
Furono anni molto difficili soprattutto per i casi di suicidio in carcere. Ricordo che quando fu arrestato Mario Chiesa ero in Terra Santa e dissi: “Si è aperto un tombino, ora si troverà una fogna”. Non avevo nessuna prova diretta di questa rete di corruzione, ma c’erano nell’aria segnali inquietanti. Fu un momento duro sia per la corruzione sia per certe forme di reazione alla corruzione. Parlando ai magistrati ricordo d’essermi chiesto se la reazione fosse stata sempre nei limiti della legge.