Don Roberto Mozzi, cappellano di San Vittore, parla dei detenuti malati (anche gravemente), commenta i recenti casi di suicidi e afferma: «Chi non è in grado di sostenere una pena solo punitiva non regge»
di Luisa
Bove
Non si può morire in carcere. Né da malati, né da suicidi. «Ancora prima che succedesse il secondo caso di suicido in San Vittore (leggi qui, ndr) – ammette don Roberto Mozzi, cappellano del carcere milanese – mi sono detto: “La morte non deve far parte del carcere”, salvo la malattia fulminante che può capitare a tutti e ovunque. La morte ha bisogno di dignità e il carcere non è il luogo dove la morte può avere dignità».
Il carcere non è solo uno spazio fisico in cui scontare la pena…
Il carcere è un luogo che dovrebbe aiutare le persone ad affrontare la vita in modo nuovo; dove la libertà della persona è temporaneamente sospesa, ma non è previsto che sia limitata la parte così fondamentale della vita che è la morte. Perciò dovrebbero esserci tutte le condizioni perché non avvenga, neppure quando si tratta di malattie terminali. In tanti casi purtroppo le persone vedono la loro fine in carcere, oppure ne affrontano l’intero iter, per poi arrivare alla liberazione con differimento pena solo negli ultimi due giorni di agonia.
Il problema è la burocrazia per il trasferimento in una struttura sanitaria o disattenzione e superficialità?
Non lo so. Posso però raccontare un caso accaduto diversi mesi fa. Una persona, malata oncologica terminale, ha vissuto reclusa, prima a San Vittore e poi nel reparto di detenzione dell’ospedale San Paolo, fino a due giorni prima della morte, in una condizione fisica di prostrazione estrema: non era neanche in grado di indossare abiti, tanto era compromesso il suo corpo. Mi domando se questa prolungata detenzione abbia avuto senso.
E rispetto ai suicidi?
Le statistiche già da sole dovrebbero far riflettere, perché sono 10-13 volte superiori in carcere rispetto alla popolazione libera. Il carcere, il più delle volte, è vissuto dai detenuti (sani e malati, italiani e stranieri) come una pena fine a se stessa. Invece, secondo quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario, ha una finalità nei trattamenti utili alla risocializzazione della persona condannata. La pena è un peso sulle persone che, il più delle volte, si sentono schiacciate e la vivono negativamente. Mette alla prova la personalità psicologica e anche fisica di tutti, sia di quelli più forti e abituati al carcere, sia di quelli meno preparati, più giovani e soprattutto malati dal punto di vista fisico o psicologico. I più deboli non ce la fanno, distinguendo tra psichiatrici e disabili mentali: a volte le patologie sono certificate, altre invece non lo sono, perché non è mai stata fatta una perizia, né in fase processuale, né in seguito. E così ricevono lo stesso trattamento degli altri. Chi non è in grado di sostenere la pena, solo punitiva, non regge. Molti suicidi nascono da queste situazioni.
Che aria si respira in cella e in reparto dopo la morte di un compagno?
C’è grande dispiacere per la persona perché la convivenza, seppure forzata all’interno di un reparto, genera relazioni che spesso sono anche di solidarietà e di reciproco aiuto. Quindi vedere che una persona non ce l’ha fatta suscita tristezza e genera un senso di colpa in chi le stava accanto. E poi crea un senso di insicurezza, perché qualcuno nei reparti vive le stesse problematiche e si chiede: «Io ce la potrò fare?». In tutti comunque genera una mancanza di speranza, perché si vedono chiusi in un sistema che porta a un esito negativo e non dà prospettive.
E il personale penitenziario come reagisce?
Da una parte le pochissime figure professionali, dedite alla cura psico-fisica e al percorso socio-educativo della persona, si trovano caricate di una responsabilità e di una mole di lavoro superiore alle loro forze, anzitutto per un fatto numerico e poi per le condizioni di lavoro. Un operatore medico o socio-educativo come fa a gestire persone psichiatriche o disabili mentali in carcere? Eppure, di fronte a una situazione che finisce male, sono considerati loro quelli competenti. Invece andrebbe rivisto il sistema, che permette a persone disabili e psichicamente malate di restare in carcere. Gli stessi agenti di polizia si trovano a svolgere un lavoro che non è nelle loro competenze, cioè di prendersi cura di persone che hanno bisogno di un’assistenza di salute mentale. Quindi il personale che opera all’interno si sente estremamente frustrato di fronte a un esito di questo tipo e si chiede il senso del proprio lavoro svolto in tali condizioni. E poi ci sono le famiglie…
Per loro la ferita è ancora più profonda…
Per i familiari di una persona malata in carcere il dolore è doppio: è doloroso vedere che il loro parente, oltre ad avere una patologia, mette in atto comportamenti antisociali. E lo è ancora di più quando lo vedono trattato semplicemente come un criminale, mentre dovrebbe ricevere un trattamento differente. Se poi l’esito è la morte, a loro rimane solo la disperazione.
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