L’attenzione spirituale accanto e insieme all’assistenza sanitaria, in unione tra paziente e medico: questa l’«alleanza» auspicata nel convegno svoltosi all’Istituto dei Tumori a cui ha preso parte l’Arcivescovo
di Annamaria
Braccini
L’ospedale come luogo non solo di diagnosi e di intervento clinico, ma anche di cultura, di cura, di relazione, di spiritualità, di servizio integrale alla persona. Così come tutto questo dibattuto e attualissimo tema viene delineato nel bel volume La spiritualità della cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale (vedi qui una scheda), pubblicato dalle Edizioni San Paolo con la prefazione di papa Francesco, presentato presso l’Aula magna dell’Istituto nazionale dei Tumori, riaperta in piena capienza per l’occasione.
A confrontarsi, alla presenza dell’Arcivescovo e moderati da don Stefano Stimamiglio, sacerdote paolino direttore di Famiglia Cristiana, i vertici di questa Irccs di eccellenza famosa nel mondo, con il presidente della Fondazione Marco Votta e il direttore generale Carlo Nicora, i due autori – il cappellano dell’Istituto don Tullio Proserpio (leggi qui una sua intervista) e Carlo Alfredo Clerici, docente e medico -, clinici ed esperti di varie discipline. Non mancano rappresentanti delle istituzioni mediche, come il presidente dell’Amci Milano Alberto Cozzi, e del Comune.
In apertura è Votta che ricorda l’origine dell’Istituto.:«Il nostro ospedale è nato nel 1928 con l’idea che il malato sia il centro del servizio sanitario e questo libro mette appunto in evidenza che l’uomo ha comunque bisogno di spiritualità. Se il mondo scientifico riesce a dare risposte razionali alla malattia, l’attenzione ai bisogni spirituali e al modo di porsi nei confronti dei pazienti è altrettanto importante. A volte bastano anche un sorriso o una presenza silenziosa accanto al malato, piccole, ma necessarie attenzioni. Lo scopo nostro e del volume è di avviare una prospettiva interdisciplinare, accelerando la creazione di luoghi dal volto umano dove poter accogliere i pazienti nella loro integralità. Come diceva il professor Veronesi, “occorre curare prima il malato della malattia”».
Le parole dell’Arcivescovo
Una visione – questa – approfondita nell’intervento dell’Arcivescovo: «Il tema della spiritualità nel processo di cura lo rende più umano e incisivo», sottolinea, prendendo avvio dall’indiscutibile ruolo giocato dalle religioni nel creare spazi di ricovero e di aiuto per i sofferenti (basti pensare agli Ordini ospedalieri): «Nell’antichità greca e romana gli ospedali – forse nati nel contesto della religione buddhista – erano vicino ai templi e, con la diffusine del cristianesimo, la cura è stata una delle forme più diffuse per testimoniare la fede, perché il legame tra la cura e la religione era evidente. Ora la scienza si è sviluppata in un modo tale da sembrare che non abbia più bisogno della spiritualità, della filosofia e della psicologia, ma solo di molta competenza, tecnologia, strumentazione».
Da qui i tre modelli interpretativi, proposti dall’Arcivescovo, nel rapporto tra spiritualità e cura: «Il primo è di intrinseca inclusione, il secondo di reciproca estraneità. Inoltre, la presenza dei cappellani in ospedale potrebbe addirittura sembrare una giustapposizione tra chi fornisce la cura per l’anima e chi, come il personale sanitario, per il corpo. Di fronte a questi tre modelli occorre invece passare a un’alleanza. Dobbiamo costruire insieme una cultura della cura: per questo l’ospedale è un luogo culturale e la spiritualità deve suggerire come formulare questa alleanza».
Ma come mettere concretamente in campo tale cambiamento di prospettiva e mentalità? «Anzitutto bisogna pensare alla spiritualità di chi cura che non può essere solo il fornitore di un servizio. Per questo è molto importante la formazione, l’attenzione alla tranquillità dei medici e del personale con ritmi di lavoro che permettano loro di coltivare i legami familiari e una spiritualità che non sia una parentesi del lavoro, ma qualcosa di intrinseco alla professione. Se non si ama se stessi come si fa ad amare gli altri?».
«Per curare bisogna avere cura delle persone nella loro integralità. Forse si potrebbe dire che al centro sta non la malattia, non il paziente, ma la relazione tra chi cura e chi è curato. La medicina cosiddetta narrativa nasce da questa intuizione, perché il paziente non va solo ascoltato per ottenere il consenso informato, che pure è irrinunciabile, ma con lui o lei vanno create condizioni per rapporti interpersonali al di là della diagnostica, anche perché sappiamo che così le stesse cure producono un frutto più convincente e soddisfacente. Anche l’esito infausto può essere affrontato in modo diverso, sostenendo la persona nell’illuminazione del suo destino. Il rapporto interpersonale implica una dinamica di recupero della spiritualità intesa come finalizzata e funzionale al bene del soggetto. La domanda è, certamente, di guarigione, ma deve anche andare al senso della vita, perché la spiritualità cristiana è un’apertura al rapporto con il mistero: questo è ciò che chiamiamo speranza, che non è unicamente l’aspettativa di guarire, ma la consapevolezza che la vita è una risposta a una promessa, non solo una destinazione a morire. In tale prospettiva si può collocare un’alleanza anche tra le istituzioni: facciamo in modo che un ospedale sia qualificato anche dal servizio pastorale».
Gli interventi degli autori
Nel ricordo della figura della serva di Dio Antonietta Guadalupi, consacrata dell’Istituto Maria Santissima Annunziata (uno dei 10 rami della Famiglia Paolina), nata nel 1947 e morta nel 2001, assistente sanitaria professionale proprio presso l’Istituto dei Tumori e precorritrice di una cura del malato anche dal punto di vista spirituale – evocata da don Stimamiglio -, prende avvio la comunicazione del coautore del saggio, Carlo Alfredo Clerici: «Certamente la fede è un fattore divisivo, ma trovarsi sul piano della condivisione umana e della speranza è molto promettente», osserva, mentre don Proserpio aggiunge: «Non esiste la parola magica, la risposta pienamente persuasiva davanti al senso della vita, del dolore, della malattia, ma si può sempre aiutare e sostenere. Noi corriamo il rischio, talvolta, di parlare troppo quando siamo vicino ai malati, pensiamo a Gesù che parla pochissimo avvicinandosi alla sua passione e morte. Diventa sempre più fondamentale una buona formazione accademica, certo, ma anche quella che si apprende vicino ai pazienti e agli operatori. È questo il percorso che cerchiamo ogni giorno di intraprendere».
A conclusione – con il rappresentante di Progea Italia Filippo Azzali – si illustrano gli obiettivi di Joint Commission International, ovvero dall’organo deputato alla validazione delle buone procedure che vengono offerte all’interno di una struttura sanitaria. Un riconoscimento, quello emesso da Joint Commission, che significa avere l’eccellenza in campo sanitario a livello mondiale.