Il cappellano dell’Istituto dei Tumori illustra il convegno in programma il 10 maggio. Un passo importante, dice, «per aiutare la comunità scientifica a essere sempre più consapevole dell’importanza di questo aspetto»

di Annamaria Braccini

Don Tullio Proserpio
Don Tullio Proserpio

Sarà un convegno importante, quello che si svolgerà martedì 10 maggio presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, per parlare della spiritualità della cura, in occasione della presentazione di un volume sul tema (leggi qui la presentazione). A don Tullio Proserpio, cappellano della prestigiosa realtà ospedaliera oncologica, autore del saggio con Carlo Alfredo Clerici (docente e medico), abbiamo chiesto il significato dell’assise. «La presentazione del libro vuole essere una provocazione rispetto a una tematica certamente stringente come la spiritualità. Parlarne, specie in Italia, inevitabilmente chiede di fare i conti con il pregiudizio che ci abita».

Quale?
Normalmente se si chiede a qualcuno che cosa intenda per spiritualità, emerge comunque il richiamo di tipo religioso; ma in tema di letteratura scientifica la dimensione spirituale è ciò che dà senso alla vita delle persone. Ritrovarsi insieme, in un contesto come l’Istituto Nazionale dei Tumori, vuole aiutare la comunità scientifica, anzitutto, a essere sempre più consapevole dell’importanza di questo aspetto, dichiarato dalla Società Italiana Cure Palliative parte della cura globale della persona. Vediamo ciò con particolare evidenza all’interno del percorso delle cure palliative, che sono uno stile di cura e chiedono una presa in carico complessiva: fisica, sociale, psicologica e spirituale.

Vi sono progetti in corso per promuovere questa spiritualità della cura?
Sì. Uno degli obiettivi del convegno è ottenere un riconoscimento ancor più stretto a livello di Joint Commission International, ovvero dall’organo deputato alla validazione delle buone procedure che vengono offerte all’interno di una struttura sanitaria. Il riconoscimento joint commission significa avere il massimo in campo sanitario a livello mondiale. Con Progea Italia, nella persona di Filippo Azzali, che sarà presente e che si occupa da anni della valutazione secondo l’JCI, stiamo provando a ottenere questo, attraverso la messa in campo di una serie di step che domandano un inquadramento generale, una checklist che ci aiuti a individuare bene come è strutturata l’assistenza spirituale all’interno di un ospedale, sempre che esista. Nel caso non sia stata attivata, occorre chiedersi cosa si potrebbe fare, come organizzarla, chi deve sostenerla.

Nell’ultima sezione del volume si parla di prospettive future. Qual è la sfida più immediata, in tema di spiritualità della cura, specie dopo la tragedia del Covid?
Se la spiritualità è ciò che dà senso e significato alla vita delle persone, in primis serve una buona formazione – penso ai cappellani, ma non solo – anche del personale curante, per aiutare a intercettare quei bisogni che spesso non sono espressi dai malati e dai familiari. L’esperienza del Covid ci ha insegnato, e prepotentemente ricordato, cosa è necessario importante in un buon accompagnamento: non è qualcosa che si impara sui libri, lo si acquisisce giorno dopo giorno, condividendo un percorso. L’obiettivo da raggiungere sarebbe avere corsi dedicati alla dimensione spirituale nel curriculum studiorum dei sanitari, medici, infermieri, assistenti, psicologi, eccetera. La cura non è qualcosa di esclusiva competenza di alcuni, chiamiamoli esperti, ma è una realtà che investe l’umano, perché tutti, sani e malati, ci interroghiamo sul significato della vita.

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