Il Vicario, che introdurrà la Veglia del lavoro del 28 aprile, parla delle crisi dovute alla pandemia e alla guerra, della riforma del welfare in atto in Lombardia e delle «morti bianche»

di Annamaria Braccini

Luca Bressan
Monsignor Luca Bressan

La Veglia per il lavoro, in programma giovedì 28 aprile con la preghiera e l’intervento conclusivo dell’Arcivescovo (vedi qui la presentazione), è solo uno dei momenti in cui si articola l’attenzione della Diocesi per la Giornata del primo maggio. Infatti, oltre la tavola rotonda al centro della Veglia – dedicata al tema del riconoscimento della cura come dimensione del lavoro – vi sarà, il 29 aprile, la consueta visita dell’Arcivescovo ad alcune aziende «per portare solidarietà e sostegno, in un momento in cui la crisi innescata dalla guerra in Ucraina creerà conseguenze anche sull’occupazione».

Infine, in calendario anche un convegno che si svolgerà il 7 maggio all’Università Liuc, «il cui scopo è aiutare e sostenere il compito degli educatori perché in questo momento di transizione e di forte crisi legata al conflitto in atto, ci sia gente che abbia il coraggio di rischiare per creare posti di lavoro», come spiega il vicario episcopale di settore, monsignor Luca Bressan che introdurrà la Veglia.

Che cosa si intende sottolineare con la Veglia diocesana 2022?
Usciamo dalla pandemia, che la guerra ci ha fatto dimenticare, ma che in realtà è ancora molto presente, come riscontriamo dai numeri di questi giorni. Proprio il Covid ha messo in luce, soprattutto all’inizio, ma anche nel perdurare dell’emergenza, come sia importante la presenza di donne e uomini capaci di accompagnare la fragilità che la malattia mette in luce. Il compito della Veglia è proprio questo: ascoltare queste persone, incoraggiarle e dare loro la dignità che meritano a fronte delle fatiche provate e anche della mancanza, talvolta, di riconoscimento e visibilità. Inoltre, si inizia a vedere una certa fatica nel trovare personale che stia accanto ai malati e ai fragili e su questo bisogna riflettere.

Certamente non si può prescindere dal momento storico attuale, ma si guarda anche a una prospettiva più ampia, nel rapporto cura-lavoro?
C’è una visione legata al contesto civile e istituzionale che viviamo, in un momento in cui la Regione sta avviando una grande riforma sanitaria e del welfare. L’intenzione è di “esserci” come cristiani dimostrando che la fede genera originalità e genialità nel rispondere ai bisogni e nell’abitare consapevolmente le trasformazioni. C’è, poi, una prospettiva più generale di lettura del tema della cura, perché – come sottolinea l’Arcivescovo – lo stress provocato dalla pandemia, che è solo l’ultimo fattore oltre tanti altri, sta rendendo molto fragili i legami e il rischio è che anche i luoghi di socializzazione più naturale, come la famiglia, fatichino a sopportare il compito loro affidato. C’è davvero necessità di rilanciare la cura come una delle dimensioni da cui ripartire e ricostruire Milano e l’Italia dopo la pandemia e dentro la crisi ucraina: pensiamo solo alla cura che stiamo testimoniando nell’accoglienza dei profughi.

Ci sarà spazio anche per il tema, sempre più drammatico, degli incidenti sul lavoro di cui si parla nel Messaggio della Cei?
Sì. Richiamerò sicuramente il tema definito dai vescovi italiani, “La vera ricchezza sono le persone. Dal dramma delle morti sul lavoro alla cultura della cura” che mette al centro il primato della persona, per sottolineare che non dobbiamo abbassare la guardia neanche sul lavoro in senso più globale. Ovviamente, in primis, c’è la questione della sicurezza dei luoghi che migliora, non solo con i necessari interventi tecnici e logistici, ma mettendo al centro la persona e la sua dignità, quindi, la sua tutela. Occorre riflettere anche sulla dimensione del salario, perché c’è un cattivo lavoro che è quello che viene pagato poco: questo è, comunque, un modo per rovinare vite.

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