È una delle cifre distintive della vita e del ministero del futuro Beato e, insieme, una provocazione per ciascuno di noi: saremmo capaci di fare altrettanto?

di Ennio Apeciti
Responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei santi

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Don Mario Ciceri con alcuni confratelli

«La vita sacerdotale di don Mario fu sempre un farsi tutto a tutti, per tutti portare a Dio, dimenticando se stesso, senza risparmiarsi mai, amando soprattutto il ministero meno appariscente e più sacrificato». Questa una delle molte testimonianze sul prossimo Beato, don Mario Ciceri, che mi ha fatto interrogato: ne sarei capace anche io? Ne saremmo capaci noi, credenti in quel Gesù che ci ha esortati a essere «miti ed umili di cuore» (Mt 11,29)?

Obbedienza e umiltà

È, forse, una delle più preziose provocazioni di questo prete che sarà presto beato, che visse per vent’anni come coadiutore nell’oratorio di Brentana di Sulbiate, senza aspirare ad altro che a stare lì, dove il Signore lo aveva inviato da prete “novello”, attraverso il vescovo Eugenio Tosi, che lo aveva ordinato il 14 giugno 1924. Dopo quella data quasi il silenzio sino a quella dell’incidente mortale. D’altra parte, don Mario aveva semplicemente obbedito: «L’obbedienza è la figlia primogenita dell’umiltà».

Con questo spirito, da Veduggio, dove era nato, passò a Brentana, ove visse quel silenzio operoso, tipico dei preti immersi tra la gente, tra i giovani; un silenzio non sempre facile, perché non facili erano i tempi: il fascismo svelò il suo volto totalitario proprio in quegli anni. Non si ritrasse don Mario: «Sopportava in silenzio le contrarietà e le sofferenze», dichiarò un testimone dell’Inchiesta canonica per la sua beatificazione.

Giusto, con amabilità

Anche questa testimonianza mi interroga, tanto più in questi tempi così avvelenati dalle polemiche, dalle accuse, dal fango delle menzogne. La nostra società e anche la Chiesa sembrano pervase – o almeno “tentate” – dall’accusarci gli uni gli altri; dal non perdonarci gli umani errori che tutti compiamo. Si dissolvono così le famiglie; si diffonde il sospetto, l’accusa dell’altro, perché chi critica si presume sempre innocente e puro, mentre anch’egli è peccatore, che forse vede la pagliuzza nell’occhio del fratello con l’unico occhio che gli è rimasto, perché l’altro è cieco per la trave che lo ha chiuso. Don Mario ci può essere ancora maestro, lui che «ad ognuno diceva quello che era giusto, sempre con amabilità». È l’indicazione di uno stile, che credo dovremmo tutti rapidamente recuperare, ammoniti da un pensiero custodito nei Diari del prossimo sacerdote beato: «La collera porta l’uomo a mille eccessi, non gli permette più di vedere». Era e può essere un invito, un impegno, possibile – credo – solo se si è umili, ovvero liberi di cuore, capaci di apprezzare le doti che ognuno possiede, perché Dio non crea alcuno senza dotarlo di splendide doti, perché le traffichi nella concordia della carità e della fraternità, che ci impegna come credenti nel Dio che ci chiama “fratelli”. Non si trattava per lui di essere migliore degli altri, di emergere: «Tu sai il mio carattere, forse un po’ troppo alieno a espansività e ai complimenti», scrisse un giorno a sua sorella. E aggiunse: «Prega, perché mantenga le promesse fatte al Signore con voto solenne».

E forse qui è il vero segreto della santità di don Mario Ciceri, che un testimone intuì ed espresse: «Don Mario fu un prete ubbidiente e umile e lo fu per la fede che richiamava dall’alto». Forse dobbiamo anche noi tornare alle nostre radici, a quel “Manifesto della santità” che è il Magnificat, il canto di Maria, e nostro: «L’anima mia magnifica il Signore… ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».

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