L’Arcivescovo ha presieduto la Messa per gli universitari nella Basilica di San Nazaro Maggiore e Santi Apostoli: «Il nome nuovo è la grazia e la responsabilità della vocazione»
di Annamaria
Braccini
Il nome che rivela solo il Signore, che definisce il non perdersi nell’anonimato o in un’appartenenza familiare che dà sicurezza, ma non aiuta a crescere. Il nome che ognuno sa di avere nel profondo di se stesso e che lo fa figlio di Dio. Lo dice l’Arcivescovo agli oltre 200 universitari riuniti, come tradizione prenatalizia, nella Basilica di San Nazaro Maggiore e Santi Apostoli (alle spalle della Statale), per la celebrazione eucaristica e gli auguri. Oltre 15 i concelebranti, tra cui il Vicario episcopale don Mario Antonelli, il responsabile della Comunità pastorale in cui è inserita la basilica, don Ettore Colombo, e i sacerdoti impegnati nell’accompagnamento delle realtà accademiche e giovanili.
Don Marco Cianci, responsabile della Sezione Università della Pastorale giovanile, nel suo saluto di apertura, osserva. «Dio, il destino, il mistero, l’origine di tutte le cose, è divenuto un volto umano; viene senza pretese perché non intende conquistare dall’esterno, bensì guadagnare e trasformare dall’interno. Se qualcosa è capace di vincere l’atteggiamento umano – le nostre fatiche, la nostra avidità e le nostre pretese – questa è l’inermità del bambino. Dio l’ha assunta per vincerci in questo modo e condurci a noi stessi».
L’omelia
«Il mio nome è nessuno», scandisce come prime parole della sua omelia, l’Arcivescovo e spiega: «Omero elogia l’astuzia di Ulisse che così risponde al ciclope. L’astuzia consiglia l’anonimato, l’essere nessuno, senza nome perché perdersi nella fila consente di evitare responsabilità, di sottrarsi agli incarichi, ma anche all’assedio del pettegolezzo». «In realtà – aggiunge -, l’astuzia dell’anonimato si rivela triste, perché si è liberi di fare ciò che si vuole, ma la realtà è che si è soli, non si è di nessuno».
Il pensiero torna al Vangelo di Luca, appena proclamato, con la nascita del Battista a cui occorre dare un nome e «si parla, infatti, del nome suggerito per il bimbo nato da Elisabetta e Zaccaria». Un nome che, rifacendosi alla famiglia di origine, dovrebbe indicare l’appartenenza: «Qualcosa di rassicurante, ma anche magari il segno di un’inerzia, di una riduzione alla famiglia cui si appartiene, mortificando l’originalità di ciascuno»
E continua, il Vescovo: «In questa nascita di Giovanni, è presente l’angelo di Dio: non è un’inerzia, è il compiersi inaspettato di una speranza frustrata di una coppia anziana senza figli per lungo tempo. Il nome sarà, dunque, un inedito nella storia nella famiglia – Giovanni -, il nome che dice la grazia e la vocazione».
Il Natale
Da qui, il richiamo al Natale come «rivelazione del nome inedito, insperato, promettente, impegnativo e liberante con cui si possono chiamare uomini e donne. Il nome può permettere di vincere la tentazione dell’anonimato, di evitare la tristezza di abitare nella solitudine, di vincere il senso soffocante di essere una replica, di vivere una predestinazione e di essere solo “figlio di qualcuno”. A Natale questa povera umanità riceve il nome nuovo: “Non vi chiamerete più mortali, italiani, stranieri, figli del notaio o del servo della gleba, ma sarete chiamati figli di Dio. Quindi. fratelli e sorelle per un vincolo secondo lo spirito di Dio».
«Il Natale non è soltanto la rivelazione della dignità di ogni uomo e di ogni donna, è il tempo per rallegrarsi di aver ricevuto un nome nuovo, quello che nessuno conosce, se non chi lo riceve. Il nome nuovo è la grazia e la responsabilità della vocazione, il nome con cui mi chiama il Padre attraverso Gesù, il nome che chiama a stabilire una relazione personale con Dio, che dice la mia verità profonda, la mia speranza più necessaria, che rivela la strada della vita e rende possibile vivere in comunione con Dio e con gli altri, con il desiderio di essere lieti e con la personale capacità di amare».
L’augurio
E, alla fine, l’augurio portato con un’immaginetta che rappresenta la fuga in Egitto di Maria, Giuseppe e Gesù, a dire che «nonostante la tragedie, l’incertezza del cammino, quando due persone si amano e hanno al centro Gesù, si può andare fiduciosi incontro alla vita».