In Duomo l'Arcivescovo ha presieduto il Pontificale di Tutti i Santi: «Nel giorno della santificazione universale, respingiamo la tentazione di rassegnarci alla malinconia dei rinunciatari»
di Annamaria
Braccini
La solennità di tutti i Santi che dice che santi possiamo essere tutti, che non ci sono eletti, privilegiati, destinati, che la santità non viene “dopo”, ma durante la vita, nonostante il male che circonda il mondo. Che racconta come il paradiso non «sia una favola per bambini», ma possa essere concretamente la storia di ragazzi e ragazze di oggi – come il beato Carlo Acutis, il “santo 2.0”- nel cui esempio hanno camminato, per le strade della grande metropoli, più di un migliaio di adolescenti nella “Notte dei santi”. E così è anche per la memoria che spiega, da 4 secoli attraverso i grandi quadroni tra le navate della Cattedrale, la santità del compatrono della Chiesa di Milano, san Carlo Borromeo. Quello stesso Duomo dove l’Arcivescovo presiede, concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano, il Pontificale del 1 novembre. I Dodici Kyrie, peculiari della liturgia ambrosiana, tanti fedeli, tra cui un numeroso gruppo di non udenti (la Messa è sottotitolata nel linguaggio Lis), le centinaia di statue di santi, che paiono fare da corona al Rito ai vertici delle grandi colonne, sono l’immagine del «giorno della santificazione universale, nel quale respingiamo la tentazione di rassegnarci alla mediocrità, per liberare la vita dei discepoli di Gesù dalla malinconia dei rinunciatari», come dice, in apertura, della sua omelia, il vescovo Mario.
Tre i «pregiudizi», come li definisce, che la santità «sconfigge», a partire dal primo. «Nella tradizione antica, il prevalere di un popolo su un altro diventa la dimostrazione della superiorità di una divinità su un’altra. Ma la visione dell’Apocalisse smentisce tutto questo e rivela che l’intenzione dell’unico Dio è di salvare tutti».
Infatti, prosegue l’Arcivescovo, «siamo salvati non perché apparteniamo a un popolo, a una tradizione religiosa, a una Chiesa, ma perché siamo amati dal Signore, segnati con il sigillo del Dio vivente. Salvati perché passiamo attraverso la grande tribolazione della storia, essendo partecipi della vita di Colui che ha preso su di sé la condizione umana e ha versato il suo sangue per la nuova alleanza. Tutti i popoli sono chiamati a essere l’unico popolo, chiamati a essere santi perché fratelli e sorelle, figli dell’unico Dio».
Da qui la smentita del secondo pregiudizio, che «immagina che se c’è un paese della gioia, questo non è certo il nostro paese perché la gioia non può abitare su questa terra». E che, anzi, «forse non abita da nessuna parte e c’è un paradiso altrove, in un’altra vita, perché questa terra non è il paese dove si possa incontrare la gioia». Il Vangelo annuncia, invece, che «la gioia è la grazia di entrare nel regno di Dio, cioè nell’umanità di Gesù».
Infatti, «i poveri, gli assetati di giustizia, i perseguitati, gli afflitti non sono infelici, se entrano nel regno di Dio. La sorgente della gioia è nella relazione con Dio, nell’essere uomini e donne partecipi dell’umanità di Gesù».
Infine, il terzo pregiudizio, «che il male del mondo e della vita siano più forti dell’amore di Dio» .
Laddove «le vicende della storia del mondo e personali insinuano il sospetto che la cattiveria, l’ingiustizia siano manifestazioni di un male mostruoso che nessuno può vincere e a cui nemmeno Dio può resistere», la vera risposta – come osserva san Paolo – è che tutto concorre al bene e «nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo».
«Dio ha sconfitto il male, non con un trionfo spettacolare, ma con la missione di Gesù che si rivela vincitore perché è entrato nel male, l’ha preso su di sé, e ha trasformato anche l’ultimo nemico, cioè la morte, in un’occasione per rivelare la sua gloria. Tutto, persino la tribolazione, persino il dolore, persino le ferite che la vita non risparmia a nessuno, tutto concorre al bene. Il male non diventa bene – conclude il vescovo Mario – , ma ogni situazione è un’occasione possibile per amare, per crescere nel bene».
E, alla fine della Celebrazione, ancora un saluto, «con particolare affetto i non udenti che partecipano a questa celebrazione», e un auspicio per tutti. «Proseguiamo nella gioiosa familiarità con i Santi, in particolare quelli che conosciamo per le letture e gli incontri che la vita ci ha reso possibili. Continuiamo a camminare anche noi con la loro festosa assemblea. Che questo sia un giorno di speranza. Preghiamo insieme per i nostri defunti perché sentiamo che l’affetto di una vita trova la sua pienezza nella gloria di Dio».