La moderatrice della Consulta diocesana “Chiesa dalle Genti”: «La Proposta pastorale dell'Arcivescovo, con l’avvio delle Assemblee sinodali decanali, vuole ampliare l’orizzonte della vita cristiana, che si amalgama nella vita sociale»
di Annamaria
BRACCINI
«L’appello di papa Francesco nell’Enciclica Fratelli Tutti e il Sinodo diocesano “Chiesa dalle Genti” ci spingono a immetterci in un “noi” che si dilata e fa riecheggiare quel desiderio profondo di Gesù nella sua preghiera al Padre». Suor Luisella Musazzi definisce con queste parole uno dei tratti contemporanei della missione della Chiesa. Moderatrice della Consulta diocesana del Sinodo “Chiesa dalle Genti” e membro del Consiglio Episcopale Milanese, suor Luisella aggiunge: «Nel nostro Sinodo abbiamo affermato che: “Nel dono dello Spirito si realizza una comunione nuova tra i popoli diversi: si realizza e si vive il dono dell’unità nella valorizzazione delle differenze, della pluriformità nell’unità: una convinzione condivisa e una sfida da affrontare con perseveranza”».
Nel contesto di una chiamata alla fraternità universale, il Sinodo “Chiesa dalle Genti” è un segno concreto particolarmente significativo. Quale contributo può offrire a tali cammini?
La Chiesa è chiamata non solo a esprimere un pensiero, ma piuttosto a dare testimonianza di una coralità, di una sinodalità nell’impegno a servire l’umanità in modo evangelico. Credo sia questo il contributo che il cammino sinodale può offrire: un cammino fatto insieme come cristiani, non spettatori in questa storia ancora ferita da divisioni profonde, ma procedendo insieme, per aprire nuovi luoghi di incontro, di confronto, di amicizia. Ciò esige che, innanzitutto, nella stessa Chiesa promuoviamo la mutua stima, il rispetto e la concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l’unico popolo di Dio.
L’Arcivescovo parla di una Chiesa che deve essere capace di annunciare anche verità scomode con la sua originalità. Il dialogo e il confronto, così com’è stato proposto in questi anni dal Sinodo, può essere “scomodo”?
La domanda apre tre orizzonti di riflessione. In primis, la missione della Chiesa di annunciare e testimoniare il Vangelo: certamente un impegno che richiede fedeltà al Vangelo in una profonda familiarità con Gesù, ma anche una consapevolezza della grazia di Dio che agisce in noi, prima di noi e nonostante noi. Una Chiesa che conta solo sulle proprie capacità non è originale. L’originalità viene da Colui che è l’origine di tutte le cose. Un secondo aspetto è quello della “scomodità”. Forse tutti abbiamo bisogno di scomodarci un po’ dalle nostre abitudini, anche religiose, dai nostri modi di pensare consolidati e soprattutto dal nostro modo di giudicare gli eventi e le persone. Una Chiesa che si lascia scomodare dal Vangelo è una Chiesa libera che innesta, nella storia, germogli di resurrezione. Un terzo aspetto riguarda il nostro modo di vedere la società. Certamente l’individualismo è un aspetto insidioso, ma credo che in questi anni di pandemia abbiamo avuto modo di vedere soprattutto la solidarietà, la generosità e la cura. La missione dell’annuncio che il Signore ha affidato ai cristiani è quella di far circolare la Buona Notizia, che è declinata nelle buone notizie dei fatti della vita quotidiana, senza distinzione di razza e condizione sociale. Per questo la Proposta pastorale di quest’anno, con l’avvio delle Assemblee sinodali decanali, vuole ampliare l’orizzonte della vita cristiana, che si amalgama nella vita sociale per far lievitare bontà, bellezza e fraternità, oltrepassando anche i confini parrocchiali.
Tante tradizioni diverse nel vivere la fede e le celebrazioni possono aiutare una partecipazione diversa e più lieta alla vita ecclesiale?
«Celebrare è grazia», dice l’Arcivescovo nella Proposta. Allora celebrare diventa servizio di condivisione e di accoglienza della Grazia di Dio che tutti raggiunge e si estende all’umanità. La domanda è se siamo disponibili ad accogliere un modo di vivere la fede diverso dal nostro o se il crederci “migliori” ci priva della gioia e ci isola; se le nostre celebrazioni sono momenti di comunione in letizia o ci dividono in interpreti e spettatori passivi; se il linguaggio che adottiamo apre alla comunicazione con Dio accessibile a tutti; se le nostre melodie e canti sono espressione della felicità di un popolo abitato dalla gioia della resurrezione.