Finita l’epoca dei campi e degli sgomberi, l’approccio di queste popolazioni alla questione-casa è mutato negli ultimi anni, tra occupazioni abusive e situazioni regolari. Ne parla suor Claudia Biondi, responsabile d’area per Caritas ambrosiana

di Francesco CHIAVARINI

Suor Claudia Biondi
Suor Claudia Biondi

C’erano una volta, a Milano, i grandi campi Rom. Nei primi anni 2000 via Novara e via Triboniano erano, a seconda dei punti di vista, un attentato al decoro urbano che occorreva cancellare con ogni mezzo (anche con le squadre di poliziotti in assetto anti-sommossa), oppure una gravissima emergenza umanitaria di cui piuttosto bisognava vergognarsi e cercare in tutti i modi di trovare una soluzione. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti. Finita l’epoca degli sgomberi muscolari compiuti, sempre a beneficio di telecamera, dalle giunte che hanno governato il primo decennio del nuovo millennio; le amministrazioni comunali che sono venute dopo hanno tentato di offrire una soluzione reale alla questione abitativa dei Rom. Da allora la situazione è migliorata, ma non si può dire che sia stata risolta. Proprio all’abitare Rom Caritas Ambrosiana ha dedicato un webinar la scorsa settimana. Ne parliamo con suor Claudia Biondi, responsabile d’area per l’organismo diocesano.

Dove vivono oggi a Milano i Rom che non hanno accettato di entrare nei centri di accoglienza del Comune?
Solo qualche anno fa, più precisamente fino al 2018, la nostra unità mobile incontrava soprattutto piccolissimi insediamenti che si erano formati dalla disgregazione dei grossi insediamenti informali. Erano piccole baraccopoli che nascevano e morivano con un altissimo turnover, generalmente occupate da famiglie allargate che potevano arrivare anche a contare 30 persone. Ma anche quella fase si è esaurita. Oggi l’abitare informale rom vuol dire soprattutto occupazione abusiva di edilizia pubblica.

Premesso, come avete detto nel webinar, che le occupazioni sono atti illegali e in quanto tali vanno condannati, vi siate dati una spiegazione di questo fenomeno?
Va da sé che, rispetto al campo, una casa rappresenta un netto miglioramento della qualità della vita. E quindi chiunque la preferirebbe. Ma c’è anche un fattore legato al progetto migratorio. Prevalentemente a occupare sono famiglie rumene che praticano una sorta di pendolarismo con la Romania: vivono qui per un periodo, ma hanno ancora un ancoraggio privilegiato con i campi del Paese di origine. L’occupazione di una casa, per loro, richiede un basso investimento, sia di progettualità, sia economico: dopotutto basata pagare una tantum chi ti spacca la porta e ti fa entrare. Questo pendolarismo transnazionale non è praticabile, se si accetta, per esempio, una accoglienza in un centro del Comune di Milano, perché in quel caso si prevede che la famiglia accetti una stabilità abitativa, di lavoro e di scuola. In molti casi i progetti di vita sono incompatibili.

Come avvengono le occupazioni?
Ci si rivolge a un parente, a qualcuno del villaggio di origine che l’ha già fatto. Questo fa sì anche che si creino grossi agglomerati di uno stesso gruppo etnico o familiare nello stesso stabile. In questo modo si riproduce lo schema sociale e lo stile di vita da cui provengono, in un contesto che però è molto diverso da quello di origine. È un fenomeno problematico, perché la concentrazione ricrea il ghetto, l’autosegregazione e non favorisce certo l’inclusione. In più si alza il livello di scontro sociale tra tutti gli esclusi: assegnatari in graduatoria, occupanti rom, occupanti non rom, vecchi occupanti.

Come si risolve il problema?
Partendo dalle situazioni concrete. Ci sono persone che da un’occupazione sono riuscite a passare a una situazione abitativa regolare, e con quel passaggio hanno potuto regolarizzare anche una situazione lavorativa, sanitaria, e aumentare la frequenza alla scuola per i figli. Per questo noi sosteniamo che la questione abitativa è il primo passo per procedere verso un miglioramento della situazione e una inclusione sociale.

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