A una settimana dal ferimento il vescovo di Rumbek esprime parole di giustizia, riparazione, perdono e speranza. Il 5 maggio alle 21 la sua testimonianza online ai Mercoledì del Pime
di Patrizia
CAIFFA
Agensir
La cerimonia di ordinazione in diocesi prevista per il 23 maggio è stata rimandata a quando monsignor Christian Carlassare, il vescovo di Rumbek in Sud Sudan ferito alle gambe in un agguato, potrà di nuovo camminare e sarà guarito «nel corpo e nello spirito, per recuperare il trauma e aspettare che siano stati fatti i passi necessari per rendere possibile il mio ritorno a Rumbek. Ossia che l’indagine vada avanti, che trovino i colpevoli, che ci sia un giudizio e siano capaci di garantirmi sicurezza nel momento in cui vado e non ci sia un altro attacco del genere», afferma oggi monsignor Carlassare al Sir, a una settimana dall’aggressione compiuta di notte da due uomini armati che hanno bussato alla porta della Curia di Rumbek.
Dopo gli spari alle gambe il vescovo è riuscito ad accorgersi di un telefonino perso dagli assalitori, che ha permesso agli investigatori di ricostruire i contatti precedenti. Tra le 24 persone arrestate vi sono anche alcuni preti e collaboratori della diocesi. «Non sono al corrente delle indagini – dice il vescovo comboniano -. Ma ho sentito dire che ci sono stati altri arresti di persone coinvolte o che hanno supportato l’idea. Penso che esecutori e mandanti siano pochi. Spero che questo non porti confusione nelle investigazioni. Lascio che il governo faccia le proprie indagini e poi, in base alle conclusioni, anch’io saprò tirare un po’ le somme».
43 anni, nato a Schio e originario di Piovene Rocchette (diocesi di Padova) monsignor Carlassare è il più giovane vescovo del mondo. Ordinato vescovo da papa Francesco l’8 marzo era a Rumbek da una decina di giorni, una diocesi in cui le relazioni tra le etnie dinka (maggioritaria) e nuer sono complicate, sede vacante dopo la morte dieci anni fa del vescovo comboniano monsignor Cesare Mazzolari. Ora monsignor Carlassare è ricoverato in un ospedale di Nairobi, dove ha subito altre due operazioni alle gambe e potrebbe aver bisogno anche di un trapianto di pelle: «Sono ancora a letto, non riesco a muovermi o a dare peso alle gambe, tutto dipenderà dalla riabilitazione. Ci vorrà almeno un mese o un mese e mezzo prima che i muscoli si riformino e io possa tornare a camminare normalmente».
Tornerà a Rumbek? Con quale spirito?
Certo che voglio tornare a Rumbek, il mio impegno c’è ancora. Quando mi è arrivata la nomina sapevo di andare in una diocesi con problematiche forti, perché da dieci anni non c’era un vescovo. Quando ho detto di sì sapevo che sarei andato incontro ad una situazione difficile, dove ci sarebbe stato bisogno di fare chiarezza. Avevo già sentito di vari problemi, anche di avvenimenti violenti contro alcuni preti o suore. Arrivato a Rumbek ho cercato di collaborare con tutti, cercando di capire dove fossero le buone intenzioni e dove invece le mancanze. Ovviamente nessuno è completamente malvagio, quindi ho cercato di collaborare con tutti, anche con quelle persone di cui avevo sentito storie o accuse preoccupanti. Nei primi dieci giorni sono stato ben accolto, ho visto buona volontà da parte di tutti. Ho avuto collaboratori di cui sapevo di potermi fidare ciecamente. Di altri dovevo ancora capire. Certamente non mi sarei mai aspettato in dieci giorni una reazione del genere, davvero fuori luogo e al di là di ogni proporzione.
Lei ha lanciato numerosi appelli al perdono e alla riconciliazione: pensa che faciliteranno un cammino ancora pieno di ostacoli?
Sentendo il mio richiamo al perdono molte persone si sono rivolte a me con grande rispetto, lodando questa intenzione. Altre invece hanno detto che più che di perdono c’è bisogno di giustizia. E lo confermo, perché quando c’è un crimine bisogna prima ripararlo e fare una scelta giusta per aiutare la persona a convertirsi, cambiare e riconoscere l’errore fatto. Non si tratta di un perdono sterile per coprire tutto, come se non ci fosse mai stato. Bisogna essere capaci di prendersi le proprie responsabilità rispetto ai crimini commessi. Rimane il fatto che, di fronte a tutto il male che c’è nel mondo, solo il perdono dà una speranza per il futuro. Ci ho tenuto molto e ci credo: pur chiedendo giustizia ed esigendo un percorso secondo legalità, c’è bisogno anche di un perdono interiore. Non significa tornare a tutto com’era. I cuori devono essere sanati dal perdono. Perdonare è prima di tutto un bisogno che nasce dentro di me. Ma penso possa essere anche un bisogno dell’altro, nel momento in cui riconosce la sua colpa, con la volontà di cambiare perché si è sentito amato. Questa è una esperienza nuova in Sud Sudan. Credo che le persone che hanno compiuto questo gesto hanno bisogno di sentirsi amate, nonostante quello che hanno fatto.
È al corrente di novità nelle indagini?
Non so molto delle indagini perché ovviamente sono riservate. So solo che tutto è nato dal telefono caduto ai due attentatori, che io ho visto e dato al sacerdote che è venuto ad aiutarmi. Da lì sono partiti i primi arresti delle persone che hanno comunicato tra loro nei giorni precedenti all’attacco. Se prima erano 24 ora ho sentito che ci sono altri arresti di persone coinvolte o che hanno supportato l’idea. Penso che esecutori e mandanti dovrebbero essere pochi. Spero che questo non porti confusione nelle investigazioni. Lascio che il governo faccia le proprie indagini e poi, in base alle conclusioni, anch’io saprò tirare un po’ le somme.
Il Papa ha espresso pubblicamente il suo sostegno: come l’ha fatta sentire? Anche la Chiesa del Sud Sudan si è espressa…
Sono molto commosso dal sostegno del Papa perché ha tanti pesi da portare e non avrei mai voluto dargli anche questo sulle spalle. Ho sentito i vescovi del Sud Sudan e il nunzio in Kenya, che segue anche il Sud Sudan, e mi ha portato i saluti dell’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, che doveva venire ad ordinarmi. Ovviamente dobbiamo essere tutti corresponsabili e portare il peso della Chiesa insieme. Sento nel Papa una figura grande di apostolo, maestro, padre e seguo certamente le sue orme. Il sostegno da parte della Chiesa lo sento, perché io sono Chiesa e io voglio essere quel sostegno che le persone devono vedere. Non ho bisogno di altro se non di essere io quella realtà che gli altri vogliono vedere nella Chiesa: una Chiesa vera, discepola, che paga il prezzo. Una Chiesa vicina ai poveri, che soffre e che salva. Ho avuto la vicinanza di tantissime persone, uomini e donne di fede che hanno pregato per me e mi hanno dato un coraggio enorme. Non si è cristiani a parole si è cristiani perché ci si è convertiti ad una vita buona e diversa.
Ora che le emozioni forti si sono un po’ placate qual è oggi il suo appello alla gente di Rumbek, ai sudsudanesi?
L’appello alla gente di Rumbek e a tutti i sudsudanesi è di sognare in grande e lasciare da parte tutta quella rabbia, quello scontento e quella insoddisfazione che viene dal conflitto e da una catena di violenza che non ci permette di sperare in un mondo altro, dove chi vince è sempre il più forte, dove per ottenere qualcosa bisogna lottare. Questo non è il Sud Sudan, non è il nuer, non è il dinka, nessuna tribù fa così. Bisogna riscoprire quei valori belli dell’Africa, della famiglia, della solidarietà, della comunione, della pace, che c’erano prima della storia violenta comparsa negli ultimi 50 anni di conflitti. Sogno di vedere una cultura dinka e una cultura nuer depurate da tutti quegli elementi violenti, per promuovere una vita comune, bella, dove tutti sono uguali e possono godere ugualmente delle risorse.
La comunità internazionale può fare qualcosa per aiutare il Sud Sudan?
Inviterei la comunità internazionale a guardare all’Africa con occhi nuovi e diversi. Vorrei che fossero capaci di vedere i grandi valori dell’Africa e ascoltare le domande degli africani di poter aver accesso alle risorse, alla possibilità di svilupparsi in tutte le proprie potenzialità. Spesso in Italia c’è una negatività che non le fa giustizia, quando invece c’è un’Africa bella, rigogliosa, che cresce e ci ha già superato anche in civiltà. Ci sono tante cose belle che possiamo testimoniare, senza far prevalere gli aspetti negativi che siamo abituati ad esaltare. Se l’Africa riuscirà a superare i propri problemi di ingovernabilità e violenza potrà salvare il mondo sotto molti punti di vista: ha le potenzialità per rinnovare il mondo, per proporre una nuova spiritualità, una nuova capacità di vivere l’economia, nella solidarietà e nella comunione.