In Duomo la Celebrazione per i Defunti è stata presieduta dal penitenziere maggiore della Cattedrale, monsignor Fausto Gilardi. «Affidiamoci alla speranza che viene dall’amore di Dio»
di Annamaria
Braccini
«Questa è un sera in cui la memoria di fa particolarmente intensa. La memoria abita la nostra preghiera, le nostre famiglie, le nostre chiese. Ricordiamo persone care, ritornano alla mente e al cuore parole significative che tratteniamo nel segreto del nostro animo come una reliquia a cui affidare la nostra vita».
Sono espressioni commosse, ma segnate dalla speranza affidabile che viene dal Signore risorto, quelle con cui il penitenziere maggiore della Cattedrale e responsabile del Servizio per la Pastorale Liturgica della Diocesi, monsignor Fausto Gilardi, apre l’omelia della Celebrazione per i defunti che presiede in Duomo. Concelebrata dai Canonici del Capitolo della Cattedrale, la Messa vede vuota la Cattedra, su cui normalmente siede il Pastore di Milano, perché l’arcivescovo Mario si trova da qualche giorno in quarantena a causa del Coronavirus.
E, così, anche la memoria «particolare, familiare, che ha portato nella nostra vita decisioni di valore» e che tutti ben conosciamo diventa memoria a molto più largo raggio, ricordando «tante situazioni di morte e di fatica, tanti fratelli che in questi mesi non abbiamo neppure potuto salutare, accompagnare con una carezza, una vicinanza fisica».
Quella memoria che, mai come adesso – osserva ancora monsignor Gilardi -, rischia di divenire «struggente e misterioso dolore se resta soltanto nostalgia di persone, fatti, avvenimenti».
Ma è proprio celebrando la Pasqua di Gesù nell’Eucaristia che questo stessa memoria si apre alla speranza viva «che corrisponde al bisogno di infinito e di eterno che abita il cuore di ognuno di noi».
Il richiamo è alla Parola di Dio, appena proclamata tra le navate, a ciò che ha detto il Signore, per «credere e trovare, nella confidenza di Gesù, la speranza».
Un cammino di fede fiduciosa confermato dalla Lettura dell’Apocalisse di Giovanni – “Il Signore abiterà con noi, asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».
Insomma, la speranza «non è un’illusione, una probabilità, un pio desiderio», ma una certezza come ci garantisce la Lettera di san Paolo ai Romani.
E, allora, prosegue il Penitenziere maggiore, «la speranza diventa la modalità con cui ricordiamo i nostri morti e pensiamo al mistero della morte». Memoria e speranza che, poi, insieme generano una sapienza del cuore che «ci ricorda il nostro limite e la nostra provvisorietà».
Così come fecero Agostino – che scriveva, concludendo la sua “Città di Dio”, «Riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» – e Teresa di Lisieux, morta a soli 24 anni, dicendo che «il tempo è la tua barca non la tua dimora».
«Avere la sapienza del Signore significa sapere proprio questo: abitiamo il tempo che è la barca che ci conduce all’altra sponda dove sta la dimora definitiva. Il nostro cammino non è verso l’ignoto o, peggio, verso il nulla, ma è cammino verso il compimento. Ognuno di noi è chiamato a ricordarlo».
Una sapienza che aiuta a non avere paura. «È naturale avere paura, è umano – e in questo momento particolare ne abbiamo tanta tutti -, ma la paura se si lascia illuminare dalla sapienza del Signore diventa affidamento. Quando la paura tende a schiacciarci, a sopprimere il desiderio di andare avanti, dobbiamo compiere un gesto di affidamento. Troveremo le mani del Signore ad accoglierci: mani che conoscono la forza per sorreggerci, la tenerezza per dirci una vicinanza che consola e ci fa amare».