Il Priore della Comunità monastica di Dumenza sulla proposta pastorale: «Opportuno il richiamo dell’Arcivescovo ad ascoltare la realtà e discernere, più che a programmare»
di Annamaria
BRACCINI
«Mi ha colpito molto quello che l’Arcivescovo, nelle prime pagine della sua proposta, afferma, ossia che l’inizio di questo anno pastorale, più che un tempo di programmazione, debba essere un tempo d’interpretazione e di discernimento su quanto abbiamo vissuto, stiamo vivendo e ci apprestiamo a vivere». È una risonanza, sviluppatasi a livello personale, quella che fratel Luca Fallica, priore della Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza, sottolinea subito, riflettendo sulla proposta pastorale Infonda Dio sapienza nel cuore.
Perché questo richiamo, secondo lei?
Spesso il rischio è quello di essere maggiormente preoccupati di fornire degli strumenti di programmazione, pure necessari, ma che non sempre nascono da un ascolto attento della percezione del reale. Mi pare, invece, che siamo chiamati anzitutto a un ascolto profondo della realtà e della storia che ci aiuti a orientarci come comunità cristiana ed ecclesiale. Che l’Arcivescovo indichi questo, richiamando l’importanza della sapienza che ritroviamo negli scritti biblici, mi sembra particolarmente significativo, perché la sapienza è quell’arte di trovare la Parola di Dio iscritta dentro le vicende umane. Non una Parola che scende semplicemente dall’alto, ma che sale dal basso, da ciò che la persona e la comunità vivono.
L’Arcivescovo fa sue le parole di San Carlo Borromeo dopo la peste, per trarre un ammaestramento da ciò che è stato. Qual è questo insegnamento per la vostra Comunità, che ha perso anche un confratello a causa della pandemia?
Credo che gli insegnamenti siano molteplici. Un primo aspetto, che mi sembra molto presente, è la dimensione relazionale: la proposta ha delle pagine molto belle sul tema dell’amicizia e della conversazione. Come dice uno slogan, «non ci si salva da soli perché siamo tutti insieme sulla stessa barca»: per noi, per esempio, dal punto di vista comunitario, è stato molto importante darci dei momenti in cui condividere l’esperienza, mettere insieme la memoria, il modo in cui ciascun fratello ha vissuto la stessa vicenda con sguardi differenti. Il discernimento non è mai un’arte individuale, ma è un’arte relazionale e comunionale.
Siete una comunità di 16 persone, abbastanza isolata territorialmente. Come leggete la necessità di cambiare stili di vita?
Credo che per noi sia stato salutare il fatto di essere stati coinvolti dalla malattia, pur essendo una comunità isolata, che in qualche modo poteva presumere di essere immune. Abbiamo avuto un fratello morto per la pandemia e tutti siamo stati malati, sebbene in forma leggera: infatti, facendo il test sierologico, è emerso che siamo stati contagiati. Questo ci ha aiutato a comprendere come la vita monastica non sia una forma d’isolamento da ciò che la gente vive, ma di una profonda condivisione. Il principio della sapienza è il timore del Signore: questo non vuol dire avere paura, ma piuttosto coltivare il “senso” di Dio e del suo Mistero come affidamento. Vivere come comunità monastica la dimensione della preghiera, del silenzio, ci porta a quella relazione con il Signore che è chiamata a trasformare tutte le altre relazioni: con gli altri, con il creato, con la storia.
Quale è la “parola-chiave” della proposta?
È il discernimento, cioè la capacità di rileggere la storia con un discernimento che viene dalla Parola di Dio e che consente di comprendere le scelte che siamo chiamati a fare. Io credo che la pandemia non abbia creato tanto delle dinamiche nuove, quanto piuttosto ha portato alla luce alcune che erano già presenti. Soprattutto ci ha dato occhi nuovi per leggerle nella forma dell’ascolto di competenze e sapienze diverse, anche nei confronti di chi non appartiene alla comunità ecclesiale.