L’emergenza ha rinviato la sua partenza per lo Zambia come “fidei donum”, allora don Giuseppe Morstabilini si è reso disponibile a operare all’ospedale di Busto Arsizio, sfruttando le competenze acquisite prima di entrare in Seminario: «Due forme di servizio, non differenti: si tratta di dare la vita per gli altri e il Vangelo»

di Annamaria BRACCINI

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Qui sopra e nella minigallery, don Giuseppe Morstabilini (a sinistra) con i giovani del suo oratorio

È sacerdote ambrosiano da 16 anni, per 15 ha lavorato negli oratori parrocchiali di Bareggio e di Novate Milanese, seguendo la Pastorale giovanile. Poi, a settembre scorso, la scelta: partire come missionario Fidei donum per l’Africa. Ma come per tutti, anche per don Giuseppe Morstabilini, 44 anni, originario di Cassago Brianza, momentaneamente residente in parrocchia a Samarate, l’emergenza – almeno per ora – ha cambiato prospettive e i piani della vita quotidiana. In Zambia certamente andrà, come dice convinto, ma, con ogni probabilità, non a giugno come era previsto. «Nel novembre 2019, in prospettiva del mio invio in Africa, mi sono recato a Dublino per studiare la lingua inglese e vi sono rimasto fino a due settimane fa, quando sono rientrato in Italia, prima del previsto, a causa del Coronavirus – spiega -. E, allora, mi sono chiesto cosa potevo fare, in prima persona, per questa situazione».

Ha già maturato una decisione?
Sì. Poiché in passato, prima di entrare in Seminario, ho conseguito il titolo d’infermiere professionale, ho studiato all’ospedale di Merate e lavorato al “Valduce” di Como, ne ho parlato col Vicario generale. Monsignor Agnesi mi ha consigliato di prendere contatto con le autorità sanitarie competenti per capire se posso ancora essere utile, nonostante siano passati gli anni. Avendo concluso la mia quarantena di ritorno dall’Irlanda, ho subito inviato la domanda per la disponibilità presso l’ospedale di Busto Arsizio. Nel giro di due giorni mi hanno chiamato, ho fatto il colloquio, effettuato la visita medica, firmato il contratto. Hopreso servizio sabato 28 marzo.

Subito, per così dire, “abile, arruolato”…
Sì. C’è un bisogno grande. Anche se sono fuori da un po’ di tempo, mi affiancheranno, mi aiuteranno a oliare un po’ gli ingranaggi…

Come vive a livello personale e sacerdotale questa scelta?
La sto sperimentando con un atteggiamento interiore che chiamerei di profonda “unificazione”. Per me, infatti, non vi è differenza nel dare la vita come prete in oratorio, come missionario in Africa o, in questo momento contingente tanto particolare, rimettendomi a servizio e offrendo quel poco che posso fare come infermiere. C’è lo stesso minimo comune denominatore, che è il desiderio – ripeto – di dare la vita per il bene degli altri e del Vangelo. Nella sua omelia del 25 marzo, l’Arcivescovo ha parlato dell’angelo dell’Annunciazione e ha detto che gli infermieri e i medici sono come degli angeli.  Ecco, io continuerò a fare quello che ho sempre fatto, cioè portare l’annuncio, «Il Signore è con te»: prima lo portavo in oratorio, con giovani e ragazzi, poi vorrei portarlo in terra di missione; ma adesso, in questa parentesi – che si chiuderà, speriamo, il prima possibile, perché vorrà dire che avremo superato l’emergenza -, lo porterò così con semplicità, con quella che è la mia competenza sanitaria.

Nella lettera che l’Arcivescovo ha scritto ad anziani, disabili e a chi li cura nelle Rsa, dice: «La benedizione di Dio non rende la situazione più facile, neppure è una assicurazione contro il contagio, ma è una dichiarazione di alleanza». Alleanza col Signore, che segna l’alleanza tra noi. Un sacerdote cosa può offrire “in più”, tra le corsie di un ospedale?
Spero di potere dare con le parole, la testimonianza e facendo l’infermiere, un segno di speranza. Solo questo mi sta a cuore.

 

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