Fratel Luca Fallica: «La vita monastica desidera saper aprire le braccia in atteggiamento ospitale, per accogliere sia il Signore che viene, sia quanti cercano senso e orientamento per la loro vita»
di fratel Luca
FALLICA
Priore della Comunità monastica Ss. Trinità di Dumenza
La Festa della Presentazione del Signore è stata scelta da san Giovanni Paolo II, nel 1997, come Giornata mondiale della Vita consacrata. Per comprendere il senso di questa scelta è utile ricordare come la tradizione orientale denomini questa festa: in greco è l’Ipapante, la festa dell’incontro. Celebriamo infatti la bellezza di un incontro: Dio incontra il suo popolo. Si compie così l’attesa maturata nei secoli, ma di cui dobbiamo ancora attendere la piena realizzazione.
Il nostro Arcivescovo, nella sua Proposta pastorale, ci ricorda che la speranza e l’attesa sono dimensioni costitutive della vita cristiana: «il cristianesimo, senza speranza, senza attesa del ritorno glorioso di Cristo, si ammala di volontarismo, di un senso gravoso di cose da fare, di verità da difendere, di consenso da mendicare» (pp. 41-42).
È in questo orizzonte che noi monaci riconosciamo una singolare chiamata a sostenere l’attesa dell’intera comunità cristiana. Ogni monastero percepisce l’importanza di offrire quella che l’Arcivescovo definisce una «provocazione»: vivere la vigilanza di un’attesa con la quale tutti possano confrontarsi per apprendere come tradurre questo sguardo di speranza nell’ordinarietà della vita di ogni giorno, con i suoi ritmi, le sue responsabilità, le sue fatiche.
La «Festa dell’Ipapante» ci ricorda uno stile preciso per vivere questa testimonianza: l’incontro ospitale. Per Simeone e Anna l’attesa si traduce in braccia parte, pronte ad accogliere. La vita monastica desidera essere questo: un’attesa che sa aprire le braccia in un atteggiamento ospitale, sia per accogliere il Signore che viene, sia per accogliere tutti coloro che cercano senso e orientamento per la loro vita, o i fondamenti di una speranza che hanno smarrita, o le ragioni per rimanere fedeli alle relazioni e agli impegni della propria esistenza. Gesù entra nel tempio portato dalle braccia di Maria e Giuseppe e viene accolto dalle braccia di Simeone e Anna. Ogni vero incontro nasce e matura quando siamo capaci di custodire qualcuno nelle nostre mani, e quando siamo altrettanto disponibili a lasciarci custodire dalle mani di altri.
Per la vita monastica celebrare il 2 febbraio insieme all’Arcivescovo e alla Chiesa ambrosiana ha questo significato: esprimiamo la nostra gratitudine perché ci sentiamo custoditi da questa Chiesa e al tempo stesso promettiamo il nostro impegno: continuare a custodire e a sostenere la speranza dell’intero popolo di Dio. Alcuni anni fa, il 21 novembre 2013, papa Francesco, visitando il monastero delle camaldolesi di Roma, domandava: «Nei monasteri si attende ancora il domani di Dio?». Desideriamo essere nella Chiesa segno di questo domani di Dio, che dà significato, spessore, bellezza al nostro oggi, alla nostra responsabilità in questo tempo, senza chiuderci nelle nostalgie del passato o nelle paure per il presente, ma aperti a quel futuro che Dio ci promette e vuole disegnare con noi.