Nel Discorso alla Città l’Arcivescovo invita a guardare con coraggio all’avvenire affidandosi alla promessa di Dio. In un’ampia panoramica il documento va dai 50 anni della strage di piazza Fontana alla sollecitudine per le nuove generazioni, dal sostegno a famiglia e lavoro all’attenzione all'immigrazione e alla “casa comune”
di Pino
NARDI
«Io non sono ottimista, io sono fiducioso. Non mi esercito per una retorica di auspici velleitari e ingenui. Intendo dar voce piuttosto a una visione dell’uomo e della storia che si è configurata nell’umanesimo cristiano. Credo nella libertà della persona e quindi alla sua responsabilità nei confronti di Dio, degli altri, del pianeta. E credo nella imprescindibile dimensione sociale della vita umana, perciò credo in una vocazione alla fraternità». Sono le parole conclusive del Discorso alla città che l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha pronunciato nella Basilica di Sant’Ambrogio questa sera, alla vigilia della festa del Santo patrono.
Come ogni anno il pastore della Chiesa ambrosiana si rivolge a tutta la città, alle autorità civili, religiose, militari, economiche proponendo un cammino per la vita degli uomini. «Benvenuto, futuro!» è il titolo del Discorso 2019. Come sempre l’Arcivescovo vola alto, affrontando le principali questioni aperte e proponendo con il suo stile mite alcune strade da percorrere insieme.
«Non coltivo aspettative fondate su calcoli e proiezioni. Sono invece uomo di speranza, perché mi affido alla promessa di Dio e ho buone ragioni per aver stima degli uomini e delle donne che abitano questa terra – dice Delpini -. Non ho ricette o progetti da proporre, come avessi chissà quali soluzioni. Sono invece un servitore del cammino di un popolo che è disposto a pensare insieme, a lavorare insieme, a sperare insieme. Non è il futuro il principio della speranza; credo piuttosto che sia la speranza il principio del futuro».
Fondamentale in questo Discorso è proprio il tema della speranza, che fa da filo rosso per le riflessioni dell’Arcivescovo. «Lo sguardo cristiano sul futuro non è una forma di ingenuità per essere incoraggianti per partito presto – sottolinea Delpini -, piuttosto è l’interpretazione più profonda e realistica di quell’inguaribile desiderio di vivere che, incontrando la promessa di Gesù, diventa speranza. Non un’aspettativa di un progresso indefinito, come l’umanità si è illusa in tempi passati; non una scoraggiata rassegnazione all’inevitabile declino, secondo la sensibilità contemporanea; non la pretesa orgogliosa di dominare e controllare ogni cosa, in una strategia di conquista che umilia i popoli. Piuttosto la speranza: quel credere alla promessa che impegna a trafficare i talenti e a esercitare le proprie responsabilità per portare a compimento la propria vocazione».
Il Discorso è articolato in diversi paragrafi. Eccoli in sintesi.
Benvenuto futuro!
Doverosa l’apertura del Discorso di quest’anno, a pochi giorni dal 50° della strage di piazza Fontana. Non si può costruire un futuro solido se non si fa memoria di quello che è stato. Soprattutto degli eventi che hanno segnato così profondamente Milano e l’Italia.
«Quella strage ha provocato 17 morti e almeno 88 feriti e seminato sconforto e paura non solo tra i milanesi, ma in tutto il Paese, per il clima che si creò a partire da quell’evento – afferma l’Arcivescovo -. Eppure è proprio la memoria di quell’evento a incoraggiarmi a proporre questo augurio (benvenuto, futuro!, ndr), come sensato e profetico. Se possiamo commemorare con la giusta commozione e il cordoglio la strage del 12 dicembre 1969 è perché ci furono persone che, anche in un momento così difficile, non si arresero ai diktat della paura e della lotta, alla logica del terrorismo. Impegnarono le loro energie migliori per costruire un futuro promettente per loro e per tutti».
Una vittoria della democrazia, della società italiana, che ha resistito contro le paure, il terrore, le manovre golpiste, la violenza brutale e indiscriminata. «Il nostro Paese ha vinto nei decenni la sfida con impegno coraggioso. È questo il coraggio che respiro ogni volta che attraverso la piazza davanti alla Curia, richiamandomi ogni volta quanto sia costato e quanto costi vivere aperti al futuro».
Eppure non va mai abbassata la guardia, mantenendo sempre vivo il valore della democrazia di fronte a attacchi opachi. «Anche se il suo colore è ambiguo e talora è colorato di entusiasmo e talora colorato di minaccia, io confido che non sia scritto, come un destino inflessibile, da forze oscure e da interessi particolari, ma che il futuro abbia i tratti che gli attribuiscono i popoli nel libero esercizio della loro responsabilità, perché il destino si faccia destinazione».
E l’Arcivescovo si “schiera” con chiarezza: «Sono dalla parte di coloro che scelgono di assumersi le responsabilità piuttosto che elencare denunce; preferiscono mettere mano all’impresa di aggiustare il mondo piuttosto che continuare a lamentarsi di come si sia guastato. Dove la comunità è invisibile, la società si fa invivibile e lo diventa laddove si privilegia la cura dei luoghi piuttosto che i luoghi della cura».
Delpini mette in guardia e distingue tra chi si impegna per il bene comune e chi lo fa per interessi di parte: «Anche se è diffusa la tentazione di rinchiudere il proprio orizzonte nel presente e nell’immediato, per la preoccupazione di assicurarsi consensi e vincere in confronti che sono piuttosto battibecchi che dialoghi che condividono la ricerca del bene comune, io do il benvenuto al futuro, perché so che molti amministratori, politici, funzionari dello Stato, ricercatori, intellettuali sono alla ricerca di una visione di orizzonti e non solo di interventi miopi. Molti servitori onesti e tenaci del bene comune si interrogano su quale mondo lasceranno ai nipoti e si dedicano generosamente a renderlo migliore rispetto a quello che hanno ricevuto».
Benvenuti, bambini!
Per guardare al futuro è necessario che il futuro si realizzi con le nuove generazioni. Purtroppo il nostro Paese sta sempre più invecchiando, manifestando una grave crisi demografica.
«Il futuro sono i bambini. Una crisi demografica interminabile sembra desertificare il nostro Paese e ne sta cambiando la fisionomia. Le proiezioni sul domani sono allarmanti, sia per il mondo del lavoro, sia per la sostenibilità dell’assistenza a malati e anziani, sia per il funzionamento complessivo della società. Le prospettive sono problematiche, ma ancora più inquietanti sono le radici culturali».
Perché spesso prevalgono interessi individualistici, un orizzonte legato al proprio benessere egoistico. «Siamo autorizzati a pensare e a ripensare criticamente le nostre scelte. Io personalmente ho scelto di non avere figli -afferma Delpini -. Ho sperimentato piuttosto la fecondità di una vita dedicata ai figli degli altri. Non ho figli, ma ho raccolto confidenze ed esperienze di molte famiglie e riesco a intuire la bellezza e la fatica di avere figli».
Per questo l’Arcivescovo non manca di esprimere «incoraggiamento» e «benedizione» ai genitori, alle coppie affidatarie e adottive, a chi purtroppo non potrà mai avere figli, ai nonni, a chi assiste le mamme in difficoltà nei Cav.
Ma la mancanza di bambini nasce anche da gravi situazioni di disagio sociale e da bisogni economici, che spesso sfociano nell’aborto. «Le difficoltà della gravidanza, la complessità delle situazioni, l’impulsività delle decisioni inducono talora le donne a interrompere volontariamente la gravidanza – sottolinea Delpini -. Nel dramma dell’aborto nessuno può farsi giudice dell’altro. Deve essere impegno di tutta la società aver cura che nessuna donna sia sola quando è in difficoltà, deve essere impegno delle comunità cristiane e di tutta la società che siano offerte alle donne, che vivono gravidanze difficili in situazioni difficili, tutte le premure possibili per trovare alternative all’aborto, una ferita che può sanguinare tutta la vita».
Per la natalità un ruolo determinante lo gioca la politica: «Anche il nostro Paese può percorrere sentieri culturali lungimiranti e fiduciosi e trovare gli strumenti adatti per promuovere una svolta e augurarsi proprio in questo senso».
Benvenuti, ragazzi e ragazze!
Se da una parte è necessario sostenere la natalità, dall’altro bisogna irrobustire l’impegno per gli adolescenti e giovani, che saranno gli adulti di domani. In particolare partendo dalla formazione scolastica. «Ringrazio tutti coloro che si dedicano all’istruzione, alla formazione, all’educazione nelle scuole. Dovremmo essere fieri sostenitori di un sistema pubblico di istruzione così capillare e così importante, offerto da scuole statali e paritarie, cattoliche e di ispirazione cristiana. Tutto il personale che si dedica con generosità, professionalità, spirito di servizio e di collaborazione alla scuola ha una motivata e profonda fiducia che la verità della parola, la bontà della proposta, la personalità serena dell’adulto rendano anche gli anni dell’adolescenza propizi per seminare promesse».
Per fare questo la Chiesa, nelle sue diverse articolazioni, è in campo per lavorare insieme: «È necessario che si costruiscano alleanze tra tutte le istituzioni educative, scolastiche, sportive, le forze dell’ordine, le amministrazioni locali perché la sola repressione non è mai efficace. Sempre è necessario offrire motivazioni, accompagnamenti attenti e pazienti, sostegno nelle fragilità e nelle frustrazioni che la vita non risparmia a nessuno, interventi tempestivi, affettuosi e forti. Siamo tutti chiamati a essere protagonisti nell’impresa di edificare una comunità che sappia anticipare e suggerire il senso promettente e sorprendente della vita e proporre una narrativa generazionale che custodisca i verbi del desiderare, del mettere al mondo, del prendersi cura e del lasciar partire».
Benvenuta, famiglia!
Non poteva mancare anche il riferimento fondamentale per la società e per la Chiesa: la famiglia. «Uomini e donne che si vogliono bene, che sono così liberi e fiduciosi da impegnarsi per tutta la vita, danno vita alla famiglia, quella cellula di cui la società non può fare a meno».
Certo le cronache spesso ci mostrano nuclei disastrati, devastati anche da violenze domestiche, che sfociano anche nel femminicidio: «Ogni famiglia ha la sua storia, le sue gioie e le sue fatiche. Talora le famiglie vivono momenti drammatici e persone non risolte sfogano in famiglia un’aggressività e una insensibilità che diventano pericolose».
Su questo la Chiesa non sta a guardare: «La comunità cristiana ha sempre apprezzato la famiglia, ha istituito percorsi di accompagnamento sia nella preparazione al matrimonio, sia nei momenti delle responsabilità educative, della malattia, del lutto, e in Lombardia ha trovato una forma di collaborazione con le istituzioni pubbliche che ha potuto dare efficacia a questa premura».
Anche in questo caso il ruolo della politica è decisivo, nella concretezza di casa e lavoro. «Chi ha a cuore il bene comune non può sottrarsi alla responsabilità di prendersi cura della famiglia. Da tempo si chiede che la politica fiscale consideri la famiglia un bene irrinunciabile per la società e ne promuova la serenità. Tutte le componenti della società – imprenditori, lavoratori, pensionati, giovani – non possono evitare di offrire risorse e condizioni per un reddito dignitoso che consenta di vivere sereni. La questione della casa, delle case popolari in particolare, chiede di essere adeguatamente affrontata. Il rapporto tra impegno di lavoro e impegno di famiglia sia organizzato in modo equilibrato a sostegno della famiglia».
L’Arcivescovo pensa in particolare a due soggetti “deboli”: gli anziani «che sono, per tutti noi, memoria di futuro» e «le persone vulnerabili e vulnerate (nel corpo e nello spirito), senza nome», augurandosi «che possano avvertire la nostra responsabile prossimità con una cultura della solidarietà, della cura che bussa in punta di piedi alla porta di casa, restando rispettosamente sulla soglia».
Benvenuto, lavoro!
È il male dei nostri tempi, la mancanza e la precarietà del lavoro. E tuttavia è fondamentale per il futuro di ciascuno.
Anche in questo caso l’Arcivescovo valorizza l’impegno di molti: «Bisogna tessere l’elogio di tanti imprenditori della nostra regione: impegnati fino al sacrificio, intelligenti e creativi, intraprendenti nella ricerca di mercati e di sviluppi, hanno contribuito a un buon livello di vita per molti. Bisogna tessere l’elogio di tanti dipendenti che con professionalità, dedizione, onestà sanno realizzare quel prestigioso made in Italy che conquista il mondo. Tuttavia anche in questa nostra terra così laboriosa e creativa mi dicono che ci sono lavori che non trovano la manodopera adatta e c’è manodopera che non trova un lavoro dignitoso».
L’invito è a un orizzonte da costruire: «La politica nazionale, le amministrazioni locali, le organizzazioni sindacali, le associazioni degli imprenditori e tutte le forze sociali siano chiamate a un salto di qualità nella loro opera e a una convergenza lungimirante nella loro visione, perché il tema cruciale del lavoro non sia un argomento per emergenze, ma per la programmazione».
Anche la Chiesa fa la sua parte con il magistero del Papa, nella concretezza del Fondo famiglia-lavoro, ma anche individuando strade nuove: «L’impegno di studio e la proposta di studiosi e operatori che si fanno carico del tema e dell’impegno per una nuova economia permettono di intravedere germogli promettenti, che inducono a essere coraggiosi e fiduciosi».
Benvenuta, società plurale!
Non poteva certo mancare nella riflessione dell’Arcivescovo il tema che spesso a sproposito tiene banco nel dibattito pubblico italiano ed europeo: l’immigrazione. Tutto all’insegna della storia di Milano e del territorio della Diocesi, che da sempre sono terre di integrazione di persone e culture, forgiandone l’ambrosianità.
«Il fenomeno migratorio è estremamente complesso e ha una risonanza emotiva profonda, anche se talora deformata da un’enfasi sproporzionata per alcuni aspetti. Una certa comunicazione sbrigativa e partigiana tende a ridurre il fenomeno delle migrazioni alla situazione drammatica dei rifugiati, gente che sfugge a situazioni di povertà estrema, di ingiustizia insopportabile, di persecuzione violenta e attraversa pericoli, sfruttamenti, violenze, schiavitù per inseguire una speranza di vita migliore che non raramente si rivela illusoria».
Quindi questione reale, ma talmente amplificata e strumentalizzata da impedirne una corretta comprensione. «La concentrazione sul tema dei rifugiati sovraccarica la considerazione del fenomeno migratorio di risonanze emotive, rivela l’inadeguatezza delle normative, la carenza di organizzazione, la scarsa lungimiranza della comunità europea e del nostro Paese e divide le nostre comunità in fazioni contrapposte, tra chi vuole accogliere e chi vuole respingere».
Che fare dunque? «Credo che sarebbe più sapiente affrontare il fenomeno migratorio nel suo complesso, creare occasioni di confronto con tutti i Paesi che necessitano di elaborare una visione di quello che sta succedendo e di capire quale speranza si possa condividere per vivere il nostro tempo con coraggio e serenità».
Sulla questione immigrati l’Europa ha l’occasione storica per affermare i propri valori. «In questo spettacolo scoraggiante, sono convinto che i Paesi d’Europa potrebbero essere una presenza che ripropone, difende e sostiene i valori che stanno al fondamento della nostra identità e dell’umanesimo. Ma in questo tempo ci sono le condizioni per un’evoluzione condivisa dell’Unione europea verso una comunità che possa avere una voce concorde e una politica incisiva a favore della pace e il progresso dei popoli. Possa giungere dall’Europa una voce rassicurante per il pianeta».
Ma su questo fronte tutti devono fare un cammino culturale che superi l’emergenza. «Dobbiamo liberarci dalla logica del puro pronto soccorso, dispendioso e inconcludente. Dobbiamo andare oltre le pratiche assistenzialistiche mortificanti per chi le offre e per chi le riceve, anche oltre un’interpretazione che intenda “integrazione” come “omologazione”. Si tratta di dare volto, voce e parola alla convivialità delle differenze, passando dalla logica del misconoscimento alla profezia del riconoscimento. Siamo chiamati a guardare con fiducia alla possibilità di dare volto a una società plurale in cui i tratti identitari delle culture contribuiscano a un umanesimo inedito e promettente, capace di diventare un cantico».
Benvenuta, cura per la casa comune!
Persone e società sono però inserite in un contesto ambientale che va salvaguardato. Da tempo, ormai, anche la Chiesa cattolica spinge con forza sul tema del creato, addirittura con un’enciclica, la Laudato si’ di papa Francesco. «Noi ci sentiamo incoraggiati a correggere gli stili di vita, a sostenere riforme strutturali, a vigilare con l’atteggiamento del buon vicinato che reagisce alla trascuratezza, al degrado, all’incoscienza. Lavoriamo per un’ecologia integrale che sappia considerare in armonia la dimensione ambientale, economica e sociale; promuoviamo un’ecologia culturale e della vita quotidiana. Ci appassiona la parola di papa Francesco che, nella Laudato si’ (13, 49), propone di ascoltare il grido dei poveri e della terra per assumere la responsabilità dell’ecologia integrale, per non contrapporre l’uomo all’ambiente, la cultura alla natura, l’attività produttiva al rispetto della terra».