Questa mattina, a dieci anni esatti dalla beatificazione di don Gnocchi, in occasione della sua festa liturgica, nel Santuario a lui intitolato l'Arcivescovo ha presieduto una Messa concelebrata da don Vincenzo Barbante, monsignor Angelo Bazzari e don Maurizio Rivolta
di Annamaria
BRACCINI
Resistere alla rassegnazione, allo sconforto, alla poca stima di se stessi, allo spavento interiore, anche se la vita è difficile, la violenza dilaga, la malattia segna in profondità il corpo.
Chiede questo l’Arcivescovo ai moltissimi che si affollano nel Santuario intitolato al beato don Carlo Gnocchi, per la Celebrazione eucaristica che ricorda, nel giorno della sua memoria liturgica, il decimo anniversario della beatificazione dell’“Apostolo del dolore innocente”.
Tutta la grande famiglia della Fondazione “Don Carlo Gnocchi” è rappresentata: ci sono, anzitutto, tanti pazienti, i medici, il personale, i volontari e, naturalmente, gli Alpini con i labari di gruppi e sezioni. Concelebrano l’Eucaristia, il presidente dell’Ente, don Vincenzo Barbante, il presidente onorario, monsignor Angelo Bazzari, il rettore del Santuario, don Maurizio Rivolta, i cappellani di alcuni Centri, il decano del Decanato San Siro, don Giovanni Castiglioni, nel cui territorio si trova il Santuario stesso. Presenti i vertici della Fondazione con il direttore generale, Francesco Converti, i direttori scientifico, Maria Chiara Carrozza e medico, Lorenzo Brambilla, il direttore del contiguo Centro Ircss Santa Maria Nascente, Roberto Costantini, e i direttori delle altre strutture lombarde.
Ricordando la beatificazione «evento evento straordinario, non solo per la nostra comunità, ma per l’intera Chiesa ambrosiana», don Barbante parla di «spirito di gioia e di gratitudine verso il Signore che ci ha donato una figura straordinaria di prete come don Gnocchi capace di mettersi al servizio dei più fragili e deboli». Il pensiero va anche all’Udienza straordinaria concessa da papa Francesco per il decennale che porterà 6000 persone, giovedì 31 ottobre, nell’Aula San Paolo VI in Vaticano. «Vogliamo rinnovare l’invito a proseguire il nostro cammino a servizio di quelli che soffrono per intercessione di don Carlo».
«Sulle macerie di una guerra disastrosa e assurda, in un contesto desolato, in un paese umiliato e tormentato da divisioni, desideri di rivincita, sensi di colpa, don Gnocchi e tanti come lui hanno interpretato il loro tempo come il tempo adatto per ricostruire, per ricominciare, per riabilitare uomini e donne di ogni età e condizione, per dare principio a una storia nuova. La santità di don Carlo è stata quella dei gesti minimi, di quelli possibili in momenti tragici e di fronte a miserie impressionanti», sottolinea, da parte sua, il vescovo Mario nell’omelia che è un inno alla speranza, anche se «il gemito del mondo è talora un grido, un allarme, uno spavento per l’impressione che tutto stia crollando; talora un gemito sommesso, come di un animale ferito, uno struggente senso di impotenza; talora una stanchezza invincibile, un invecchiare estremo che dà l’impressione dell’irrimediabile».
È di fronte a tutto questo che vi sono, tuttavia, 3 motivi per resistere «alla nostra fragilità, alla sensazione di non valere niente, alla delusione, al fare sempre troppo poco». Infatti, «i credenti reagiscono all’impressione di un mondo stanco, esausto, condannato all’inevitabile declino e vivono la trepidazione di un’attesa, sentono il fremito della vita nuova che nasce e si danno da fare per preparare condizioni di accoglienza, un’aria più pulita, una serenità più predisposta al futuro». Perché, anche se siamo fragili e peccatori, l’amore di Dio abita in noi rendendoci capaci di amare e elevandoci alla dignità di figli di Dio.
Chiaro il riferimento alla logica con cui il Beato visse la sua missione di carità «La Restaurazione della persona umana è l’impresa alla quale don Gnocchi si è dedicato, per la stima che ogni persona merita e per la grazia che ogni persona riceve».
Infine, il senso di insignificanza come quando «diciamo una buona parola che si perde nel chiasso di parole volgari, violente, cattive; costruiamo un piccolo angolo di solidarietà, di assistenza, di accoglienza e siamo travolti da una ondata incalcolabile di bisogni, di violenze». Anche qui vi è una ragione per resistere. «Lo sguardo di Dio sulla vicenda umana non calcola i numeri e non si esprime in statistiche, piuttosto riconosce il valore del gesto minimo, tiene conto dell’opera da nulla compiuta da gente che non grida e non si fa pubblicità, e continua ostinatamente a compiere il bene possibile. Noi non abbiamo l’ossessione di esibire numeri e risultati, semplicemente ci disponiamo a compiere il gesto minimo che oggi è possibile e lo facciamo con dedizione totale. Ci interessa il giudizio di Dio più del prestigio e degli applausi degli uomini». Così fu per don Carlo e la sua “Baracca”, la “Pro Juventute” e così è anche oggi con la Fondazione che ne nata e che, attualmente, conta 27 Centri attivi in nove regioni italiane, quasi 6.000 operatori, un migliaio di volontari, strutture anche in Africa e in America Latina (prossimamente aprirà i battenti un Centro in Ucraina), ben due Ircss riconosciuti (Milano e Firenze), tecnologie di avanguardia e strutture di eccellenza. Come il nuovo reparto per Gravi Cerebrolesioni Acquisite, inaugurato quest’anno, che l’Arcivescovo visita a conclusione della Messa.