Questo il profilo dei presbiteri tratteggiato dall’Arcivescovo nella Messa presieduta In Seminario per la Festa dei Fiori. Al centro della giornata i Candidati 2019 e presuli e sacerdoti per i quali ricorrono significativi anniversari di presbiterato o di episcopato. Testimonianza di don Patriciello, parroco nella “terra dei fuochi”
di Annamaria
Braccini
Vivere la spiritualità della vigilia, attendendo la venuta del Signore. E, per questo, non accontentarsi o adagiarsi nelle comodità, ma lavorare con speranza e fiducia. Le parole che l’Arcivescovo rivolge ai quasi 400 sacerdoti riuniti nella Basilica del Seminario di Venegono per la celebrazione eucaristica della tradizionale Festa della Madonna dei Fiori, sono anzitutto per loro – i presbiteri -, ma indicano una strada percorribile da tutti. Quella indicata da uomini di Dio come don Carlo Gnocchi al quale, a dieci anni dalla beatificazione, viene dedicata una mostra a pannelli. «Le sue parole e le sue opere sono sempre vive e indimenticabili – dice nel saluto iniziale il rettore del Seminario monsignor Michele Di Tolve -. “In un mondo come il nostro, inaridito e inacidito, è necessario formare nuclei di pensiero morale per non esserne travolti”, scriveva don Carlo. Ringraziamo il Signore per tutti quei preti e diaconi che vivono ogni giorno come dono totale di sé, servendo il Signore e il suo popolo».
La Messa
Nell’omelia della Messa, concelebrata da nove Vescovi e da tutti i preti presenti, l’Arcivescovo sottolinea: «Chi vive la spiritualità della vigilia considera il presente come provvisorio: è gente che non si accomoda come chi vorrebbe restare nel nido rassicurante, nell’ambiente in cui si sente garantito, nel ruolo che risulta prestigioso, nella compagnia che sente gratificante. Chi vive nella spiritualità della vigilia gode di ogni cosa buona, ma non si attacca a niente, non pretende nulla perché è orientato a ben altro: aspetta e prepara il regno di Dio».
Chiaro il richiamo: «Nell’attesa che torni il Signore, i servi sono coloro che vivono l’operosità dei preparativi. Le famose e apprezzate efficienza e capacità organizzativa del clero ambrosiano» sono – o dovrebbero essere – quelle dei servi affidabili, suggerisce il vescovo Mario. «I servi affidabili non si lasciano sedurre dalle tentazioni di una vita comoda, di una vita che si accontenta di una prestazione professionale che si limita al minimo richiesto e poi si dedica al proprio mondo privato sottratto al giudizio di Dio».
“Servi” che non guardano al lavoro fatto, «che non sono mossi dall’ambizione o dalla presunzione, che non cercano prestigio o potere; che non dipendono dagli applausi e dalle aspettative della gente. Ascoltano tutti, si prendono cura, come possono, delle esigenze di molti, ma la parola che li guida è quella del loro Signore e il desiderio che li motiva è quello di preparare un popolo bendisposto».
E, ancora: «I servi affidabili non si lasciano scoraggiare dai risultati stentati del loro operare e non sono amareggiati quando hanno l’impressione di incontrare indifferenza; quando, invece che essere attesi e apprezzati, hanno l’impressione di essere ignorati e considerati una presenza noiosa, fastidiosa e antipatica». Così si vive la spiritualità della vigilia, «sapendo che il tempo è di seminagione piuttosto che di raccolto».
Un tempo – questo – in cui invocare la venuta del Signore, «anche se i pastori del popolo di Dio hanno, talora, l’impressione che questo popolo non sia attratto dalla terra promessa. Perciò il pastore si fa voce anche del popolo impigrito e distratto per intercedere per tutti. La spiritualità della vigilia è necessaria all’inizio, alla fine e durante il Ministero».
«La celebrazione dell’ordinazione presbiterale, degli anniversari significativi, la festa per la fedeltà esemplare dei nostri patriarchi non è un traguardo raggiunto; piuttosto è l’occasione per vivere la spiritualità della vigilia come gente che è in attesa, servi operosi impegnati nei preparativi, pastori saggi che continuano la struggente preghiera “Vieni signore Gesù”».
Poi, al termine della Messa – nella quale l’Arcivescovo esprime ancora gratitudine e ammirazione «per questa giornata che ci fa sentire un presbiterio raccolto in fraternità» -, la festa è tutta per chi ricorda il 25°, il 50°, 60°, il 70° e il 75esimo di Ordinazione presbiterale (di questa “classe” ben due i sacerdoti quasi centenari presenti, monsignor Giorgio Colombo e don Gianpiero Gabardi) o la ricorrenza dell’episcopato. Ma, soprattutto, la gioia condivisa è per i 15 giovani che diventeranno preti il prossimo 8 giugno. Il motto dei Candidati 2019, “Siate lieti nella speranza”, si fa immagine viva nella loro presentazione ufficiale, applauditissima dall’Arcivescovo e da tutti coloro che affollano il Quadriportico.
L’intervento di don Patriciello
Cosa significa essere preti nella terra dei fuochi, nella terra dove fu ucciso don Peppino Diana? È la prima domanda che nasce spontanea quando si considera l’esperienza di don Maurizio Patriciello, parroco a Caivano, in provincia di Napoli, diocesi di Aversa, che in mattinata porta la sua testimonianza: «Sono diventato prete e mi sono ritrovato a fare il parroco nella terra a cavallo tra Napoli e Caserta, in una zona dove sono arrivate tonnellate di rifiuti industriali, interrati in maniera criminale e che stanno portando frutti di morte. Altri rifiuti vengono bruciati, perché tante industrie smaltiscono in nero, quindi abbiamo continui roghi: da qui il nome “terra dei fuochi”», spiega.
«Aversa è la diocesi in cui fu ucciso don Diana, il 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, sei mesi dopo la morte di don Pino Puglisi, trucidato nel giorno del suo compleanno. La camorra non ammazza mai in date a caso, perché certi giorni devono rimanere impressi. Quella mattina è sembrato che la camorra avesse vinto. Sentiamo questo fetore dei criminali addosso e, allora, cosa fare? Qual è il nostro dovere? Perché lui è stato ucciso e io no? È un interrogativo che mi porto dentro da 25 anni. Essere prete nella terra dei fuochi è guardarsi intorno. La ’ndrangheta, la mafia, i Casalesi occupano posti che lo Stato ha lasciato vuoti. Se non ci fosse un aggancio con la politica collusa avremo già sconfitto la malavita. Come disse il Papa, la corruzione “spuzza”».
Ancora gli viene chiesto: «Cosa significa essere prete nella Chiesa di papa Francesco»? «Sentire dire dal Papa, “Nelle periferie mandateci i migliori”, vuole dire trovare il respiro più profondo. Papa Francesco non sta svendendo, come sostengono alcuni, il patrimonio di famiglia – che peraltro non è nostro, ma ci è stato donato -, ma lustrando l’argenteria, il bello della Chiesa. È il parroco della grande parrocchia che è questo mondo e parla una lingua che tutti capiscono. Di cosa abbiamo paura? Stiamo sereni. Le nostre Chiese, i giovani, li vediamo o no? Cambiano le cose perché devono cambiare. Cosa sappiamo di quanto il Signore sta preparando? La cosa che non muterà mai è il cuore umano che ha bisogno di amare e di essere amato. Resta l’uomo da servire, non i servizi. Stiamone certi, disoccupati non rimarremo mai».
«Oggi è possibile incontrare Gesù e non riconoscerlo. Ricordiamoci che Cristo è presente ovunque. La Shoah è il male assoluto, certamente, ma abortire al nono mese con il placet della legge, come accade negli Stati Uniti, o l’utero in affitto non sono mali assoluti? Queste cose passano sotto il nostro naso e non ce ne accorgiamo. Un malato di Parkinson, un bambino autistico non servono a nulla e, allora, perché non accelerare la loro morte, perché non ucciderli? Se io vedo nell’altro l’inferno, lo ammazzo. Così fa la camorra e, infatti, si ammazzano tra loro e ne vanno di mezzo anche gli innocenti. Se io vedo nell’altro il fratello, vedo il volto di Cristo».
La conclusione di don Maurizio, che non nasconde di aver avuto un periodo di profonda depressione, è di quelle che non si dimenticano: «Chi parla della croce, deve essere pronto a mettersi sotto la croce. Bisogna avere una compagnia intima con il Signore, noi e Lui. Tanto più questo rapporto è vero, tanto più la vita è una croce luminosa. Passo dall’altare all’immondizia, faccio continuamente il funerale a ragazzi che muoiono di leucemia, a giovani mamme malate di tumore: posso limitarmi a dare una benedizione? No».