Nel contesto della cerimonia di premiazione del “Panettone d’Oro”, giunto alla sua XX edizione, l’Arcivescovo ha disegnato il profilo di una generosità non autocentrata, ma aperta alla relazione, che crea vera solidarietà e amicizia civica
di Annamaria
Braccini
«Vengo per confidarvi lo stupore per il bene immenso che rende viva questa città, che penetra in ogni luogo; vengo a ringraziare per quel buon vicinato che rende abitabili i quartieri, rassicurante l’andare per la strada, dando un senso di sicurezza alle persone fragili, alle persone sole che sanno che c’è qualcuno su cui possono contare».
È un intervento appassionato quello che l’Arcivescovo pronuncia, presso un gremito “Teatro dell’Arte”, all’interno della Triennale di Milano, per la cerimonia di Premiazione dei “Panettoni d’oro 2019”. Giunto alla sua XX edizione, il Premio “alla virtù civica” – ideato a metà degli anni ’90 dal Coordinamento dei Comitati Milanesi -, è un appuntamento importante per Milano e il suo territorio metropolitano e vede, infatti, il sostegno di diverse Associazioni e Istituzioni, i cui responsabili e rappresentanti (tra cui la vicesindaco alla Città Metropolitana, Arianna Censi e diversi sindaci), premiano 15 cittadini per ciò che hanno saputo creare nel mondo del volontariato e dell’inclusione sociale. Riconoscimenti cui si aggiungono 15 menzioni speciali per altrettante realtà. Sul paco passano, così, persone e iniziative diverse, tra loro ci sono anche don Claudio Galimberti, «per il grande aiuto portato alla Comunità di Garbagnate Milanese», come si legge nella motivazione del Premio; Gloria Mari alla guida dell’Associazione “Nocetum”, Giovanni Cavedon, presidente del Ceas; tra le Menzioni, l’“Associazione Il Girasole Onlus” che, dal 2006, si impegna per il recupero dei carcerati, «ispirandosi ai principi democratici e ai valori della Caritas Ambrosiana», con la presidente Luisa Bove.
Un momento magnifico e pieno di allegria si crea con le decine di piccoli della Scuola dell’Infanzia comunale di via Pini che, sensibilizzati alla raccolta differenziata dei rifiuti visitando l’Amsa, scrivono la loro prima pagina di civiltà: “Puoi entrare nel mondo, ma non sporcare”.
L’intervento dell’Arcivescovo
Dopo il saluto del presidente della Triennale, Stefano Boeri, che nota la peculiare caratteristica di Milano «città fatta di innovazione e generosità», l’Arcivescovo prende la parola. «Vengo a incoraggiare la perseveranza, all’andare oltre, al contagio del bene, di cui voi siete capaci, rendendo credibile che il bene è possibile, e facendo nascere il desiderio di dire “anche io voglio esserci”» .
A quelli che definisce «i protagonisti di un modo di costruire la città», il vescovo Mario indica il senso del loro impegno, quasi sempre volontario.
«Il bene che si fa non può essere qualche parentesi della nostra vita: siamo chiamati a far sì che il bene si persuasivo, che il volontariato contagi tutta l’esperienza e il tempo che abbiamo da vivere. Occorre che non ci siamo momenti in cui ci corazziamo di indifferenza e, poi, i momenti del volontariato, dobbiamo andare più avanti e credere che il bene sia capace di trasfigurare tutta la giornata, seminando, nella città, uno stile che è quello della quotidianità, della collaborazione e del buon vicinato, del sentirci alleati nel costruire il futuro. Vengo a proporre l’impresa della solidarietà».
E questo per contrastare la diffusa «idea di fatalismo, di rassegnazione per una sorta di catena che si non può rompere e per la quale chi è vittima, cercherà di rifarsi con una rabbia dentro, chi ha fatto il male lo rifarà; per cui, se le cose oggi vanno male, domani andranno peggio. Io sono qui per dire che siamo persone libere e che, se abbiamo ricevuto del male, possiamo fare il bene».
Le espressioni dell’Arcivescovo si fanno inno alla libertà «Viva la libertà delle persone che possono scegliere il bene anche quando hanno ricevuto motivi di dolore e di ingiusta emarginazione. Non siamo perfetti, non abbiamo tutte le risorse desiderabili, eppure siamo liberi e osiamo decidere di fare il bene, di mettere ordine nella vita, persino di perdonare. Così inizia la possibilità di una civiltà nuova».
Poi, una seconda parola:il vigilare. «Vigilare su come il gesto di tenerezza non sia un gesto di proiezione e il modo d fare il bene non sia conforme solo alla mentalità di chi lo fa; una generosità più gratificante per chi dona che per chi riceve. La tenerezza, la decisone di fare il bene non può essere motivata da opere, per quanto buone, unicamente personali».
Al contrario, la «generosità intelligente interpreta il vero bisogno del!altro», evitando «che il bene sia autocentrato».
Da qui, la consegna: «Passare dalla generosità alla relazione, dal regalo – che termina all’oggetto e che presume di colmate solitudini e vuoti affettivi (come avviene, talvolta, tra genitori che regalano tutto ai figli, ma non se stessi), al dono, che è segno di cura, desiderio di incontrare, modo di stabilire una relazione».
«Voglio incoraggiare una visione del volontariato che sappia evolvere da ciò che si riesce a fare ai rapporti che riusciamo a costruire. Gli oggetti finiscono per stancare, i doni che rinnovano il patto di amicizia, non stancano mai. Questo tipo di dono propizia un cammino di liberazione. Tutti coloro che sono nel bisogno, perché imprigionati in situazioni economiche, professionali, logistiche umilianti, quelli che sono nella malattia, vivono una libertà imprigionata, una sorta di schiavitù rispetto ai condizionamenti dell’ambiente, della storia, dei propri errori, delle ingiustizie subite. Voi conoscete bene tutte queste forme sostanzialmente di schiavitù».
«La relazione, che la generosità può stabilire, è una proposta di liberazione e – anche se non sempre possiamo risolvere i problemi, tutti i problemi – restituisce al destinatario attenzioni e la persuasione di essere meritevole di stima, di essere un valore, non l’utente di una possibile beneficenza, ma il protagonista della costruzione di un ambiente più accogliente, più solidale, pieno di speranza. Non un clienti che devono essere beneficati, ma uomini e donne resi capaci, a propria volta, di contribuire al bene e non solo di riceverlo. Persone chiamate a uscire dalla sottostima, restituite alla fierezza potendo dire “Tu ti sei curato di me e io posso curarmi degli altri”. Un’autostima – questa – che rende capaci di contribuire all’opera comune».