Per una reale inclusione (simboleggiata dall'albero qui ritratto) è necessario un impegno a guardare oltre le apparenze e imparare da Gesù a glorificare l’umano anche nelle sue debolezze
di Mariarosa
TETTAMANTI
È perlomeno curiosa la mentalità di Dio, che ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti e ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. Ma d’altra parte, chi può dire di essere sapiente e forte? Chi non cela, nelle pieghe dell’essere, ignoranze di cui forse non è nemmeno consapevole e debolezze di cui si vergogna? Eppure la nostra mente traccia spesso divisioni nette tra persone sane e persone disabili: noi normali e loro no, noi forti e loro deboli, noi sapienti e loro… Abbiamo un bel chiamarli “persone diversamente abili”: in realtà nell’intimità di molti di noi si annidano grumi di pensieri inconfessati, che trattengono definizioni del passato, dimenticate soltanto dal contesto linguistico attuale. Si tratta di pietismi pelosi, sostenuti da retropensieri compiacenti: «Meno male che io no… che i miei figli… tutti belli e intelligenti…». Ci crediamo nei loro confronti sapienti e forti e ci dimentichiamo di essere proprio per questo destinati alla confusione, almeno secondo l’unica Parola che conta.
Ci sono sguardi che vanno radicalmente ribaltati. Ci sono strabismi dell’anima da cercare e perseguire, perché solo uscendo dal modo comune di vedere si arriva alla verità dell’essere. Gesù stesso è stato un rivoluzionario dello sguardo. Negli occhi chiusi del cieco nato, nell’accartocciarsi spasmodico del paralitico, nella vergogna dell’emorroissa e perfino sulla barella del figlio morto della vedova, Lui ha visto ciò che gli altri non riuscivano a vedere: dove tutti scorgevano soltanto imperfezioni e mancanze, impotenza e presagi di morte, la sapienza munifica dello sguardo del Maestro scorgeva significati nascosti e luminosi, percepiva la fede nel serpeggiare dei desideri di relazione, avvistava possibilità di perfezione e di vita piena, disegnava bellezze impensabili, ma vere.
Noi invece amiamo molto certe radicate convinzioni, che ci fanno sentire sicuri, dalla parte dei fortunati, o giustificano la nostra indifferenza. Se una persona dà per scontato che per vivere pienamente bisogna avere normali capacità fisiche e mentali, di fronte a un bambino diversamente abile, senza volerlo penserà: «Poverino, non potrà mai essere veramente felice», e finirà per credere che chi manca di abilità manca di felicità. È così che dai preconcetti si passa ai pregiudizi e poi si precipita nel baratro degli stereotipi inamovibili e castranti. Liberare lo sguardo significa anche scovare e distruggere questi lacci nascosti che stringono i nostri cervelli precocemente invecchiati. Occorre amarci tanto da riuscire a regalarci uno sguardo nuovo, libero da ogni miopia, cioè da ogni giudizio impietoso, non sostenuto dall’esperienza. Per questo occorre rinnovare la mente, cambiare le prospettive di valutazione e rinfrescare i criteri dei nostri approcci al reale; bisogna reimparare l’arte preziosa del discernimento e della non conformazione acritica ai pensieri altrui, abbandonando tra i ruderi delle cose passate la paura di mettersi in discussione.
Allora il miracolo potrà veramente accadere: la fragilità nostra e altrui sarà riconosciuta come il luogo più vero del compiersi prodigioso della Bellezza divina e, di fronte a un bambino diversamente abile, non vedremo per prima cosa la carrozzina o gli occhi spenti, ma il suo sorriso, il varco che ci porterà al di là di ciò che appare e ci mostrerà cose felici e profumate e abbracci e baci che sveleranno nuove sapienze di vita. Allora ci lasceremo felicemente confondere dalla loro felicità e impareremo da Gesù a glorificare l’umano nella debolezza dell’essere: nulla è impossibile alla Sua Grazia.