Come tradizione, nella terza domenica di ottobre, è stata celebrata la Festa della Dedicazione della Cattedrale. La S. Messa è stata anche occasione per ringraziare, come Chiesa ambrosiana, papa Francesco della Canonizzazione di san Paolo VI
di Annamaria
Braccini
Appassionati dell’opera comune, chiamati a costruire la Chiesa di pietre vive, mai conclusa, che siamo tutti noi. I fedeli ambrosiani che, nella terza di domenica di ottobre, affollano il Duomo per la tradizionale a antichissima festa della Dedicazione della loro Chiesa madre, la Cattedrale, hanno – quest’anno -, una ragione in più per radunarsi tra le Navate: ringraziare, insieme, come Diocesi, papa Francesco per la Canonizzazione di Paolo VI, avvenuta esattamente una settimana fa nelle stesse ore, in cui oggi, in Cattedrale monsignor Delpini presiede il Pontificale solenne della Dedicazione. Festa sempre celebrata nella terza domenica di ottobre, a ricordo di una singolare scansione temporale attraverso i millenni. Nel V secolo, infatti, la cattedrale di Santa Tecla – una delle due da cui sarebbe sorto il Duomo – fu distrutta dai barbari di Attila; il vescovo Eusebio ne curò la ricostruzione e la terza domenica di ottobre del 453 la consacrò solennemente. E, quando, nell’836, fu consacrata la cattedrale di Santa Maria Maggiore (l’altra Cattedrale), fu scelto il 15 ottobre, che in quell’anno cadeva alla terza domenica del mese. La data della terza domenica di ottobre divenne talmente radicata nella tradizione liturgica ambrosiana che, nel 1418, quando papa Martino V, di ritorno dal Concilio di Costanza, fu invitato a consacrare l’altare maggiore del nuovo Duomo, fu scelta sempre la terza domenica di ottobre, che cadeva in quell’anno il giorno 16. Analogamente san Carlo consacrò l’attuale Duomo il 20 ottobre 1577, che era, appunto la terza domenica del mese e, quando, al termine degli imponenti lavori di restauro statico si procedette anche alla ristrutturazione del presbiterio con una nuova collocazione dell’altare già consacrato da Martino V, ancora una volta l’antica tradizione milanese fu rispettata: l’altare maggiore fu consacrato dal cardinale Carlo Maria Martini il 19 ottobre.
E un altro Arcivescovo, proprio Giovanni Battista Montini divenuto santo, cita, nel suo intervento di benvenuto, l’arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo che concelebra con il Capitolo metropolitano della Cattedrale. «Il 18 ottobre 1958, l’allora arcivescovo Montini, ebbe a dire: “Non guardate questo Duomo con l’occhio miope del turista, né con quello profano dello storico o dell’esteta, guardatelo con quello intelligente di chi vin scopre la parola dello Spirito».
Quello sguardo che hanno, appunto coloro che sono «appassionati all’opera comune e convocati per costruire», per usare le prime espressioni della riflessione dell’Arcivescovo che, per l’occasione, indossa l’anello, la croce, la mitria, il pastorale e il pallio montiniani (quest’ultimo utilizzato anche da papa Francesco per la Canonizzazione), mentre sull’altare maggiore, e posto il grande dipinto di Montini arcivescovi di Milano, normalmente conservato nella Sala dei Ritratti all’interno dell’Episcopio.
«La Chiesa non è una roccaforte costruita per difendersi dall’assalto dei nemici: la difende il Signore. La Chiesa non è un rifugio tranquillo che non si lascia raggiungere dalle inquietudini della storia. La Chiesa – secondo l’immagine della Lettera ai Corinzi, appena proclamata -, è un’impresa ancora da compiere. Siamo quindi convocati per l’impresa di costruire il tempio di Dio che è il popolo cristiano». Gente convocata, dunque, che, proprio per questo, «ha stima di sé, vive una specie di fierezza dell’obbedienza e della docilità: non si vanta, ma si rallegra di essere stata stimata degna di collaborare con Dio. La gente convocata per l’impresa è gente che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà, amareggiare dalle critiche, spazientire dal tanto tempo che la pazienza di Dio prevede per completare l’opera. E’ gente operosa e lieta, efficiente e paziente, aborrisce le chiacchiere, ma ascolta anche le critiche e ne fa tesoro; è gente fiduciosa senza essere ingenua, è gente coraggiosa senza essere temeraria, è gente prudente, senza essere pavida».
Insomma, quello che dovrebbe essere il popolo di Dio che deve (o dovrebbe) avere sempre a cuore ciò e come costruisce. Il richiamo è, ancora, alla simbolica Paolina: «La paglia, il fieno non sono buoni materiali di costruzione. Forse, iniziative ed eventi si rivelano fuochi di paglia, contributi troppo precari, materiali troppo inadeguati, per edificare il tempio di Dio. Talvolta, i calendari delle comunità sono congestionati da molta paglia e molto fieno che si ripropone con una specie di inerzia di anno in anno: ma poi resta qualche cosa di queste tante fatiche, iniziative, imprese?», si chiede monsignor Delpini.
E, ancora, l’oro, l’argento, le pietre preziose non sono buoni materiali di costruzione: «il gusto del grandioso, l’ossessione per i numeri, il tributo eccessivo alla rinomanza e alla gloria mondana orientano alcuni momenti della vita di una comunità, impegnano molte risorse, suscitano anche molta meraviglia: ma è così che Dio vuole il suo tempio?».
Come sempre, la via giusta viene dalla Parola del Signore: «Gesù non sembra tanto preoccupato dell’organizzazione e delle iniziative, ma di un rapporto di conoscenza e di sequela, di condivisione di vita e di pensieri. L’indicazione del cammino è quindi chiara ed esigente per la nostra Chiesa: dobbiamo seguire Gesù. Pertanto merita di interrogarci su come conosciamo e ascoltiamo la voce di Gesù». Attenzione cruciale – questa – che, non a caso, diventerà un punto di verifica nella Visita pastorale che inizierà nel prossimo Avvento, annuncia l’Arcivescovo.
«Ciascuno stia attento a come costruisce il proprio rapporto personale con Gesù. Ascoltando la sua Parola e seguendo i suoi passi, vogliamo costruire sull’accesso alla comunione trinitaria e su tutti i santi. La figura di Paolo VI, nostro Vescovo, maestro, esempio di una fede vissuta come un fremito di zelo e di inquietudine, di intuizioni luminose e di delicatezze personali, ci aiuti. Confidiamo nella sua intercessione, continuiamo ad accogliere il suo magistero come indicazione per il cammino».
Infine, al termine della Celebrazione, monsignor Delpini con i concelebranti si porta in processione presso l’altare laterale di Sant’Ambrogio dove è stata posta, temporaneamente, l’urna con la reliquia di san Paolo VI: la sua maglietta macchiata di sangue dopo l’attentato da lui subito a Manila nel 1970. «Dunque, Paolo VI è qui con il suo sangue e il suo affetto. Vorrei che ciascuno di noi si faccia dovere di leggere qualche sua pagina o espressione», conclude monsignor Delpini.