Il delegato episcopale per il processo di canonizzazione delinea i tratti peculiari della figura e del pensiero di Paolo VI, prossimo a essere riconosciuto Santo
di Annamaria
BRACCINI
«Credo che la straordinaria figura di Giovanni Battista Montini si possa riassumere in una sua prima e vera caratteristica: essere stato un uomo, un credente autentico sempre appassionato per Dio»: monsignor Ennio Apeciti, docente di Storia della Chiesa, delegato episcopale per il processo di canonizzazione e beatificazione di Paolo VI, consultore della Congregazione delle Cause dei Santi, spiega così, come in un’emblematica istantanea, la grandezza del prossimo Santo.
Durante la vita di Montini come emerge questo aspetto peculiare?
Anzitutto penso a ciò che si legge nei diari e nelle preghiere giovanili, che sono appassionati riconoscimenti della sua fragilità, della sua sensibilità, del suo desiderio ardente di santità, pur nel riconoscimento dei propri limiti. Conclude spesso queste preghiere di confessione dicendo al Signore: «Eppure tu sai che ti amo». Mi ha sempre colpito il fatto che questa frase ricorra nel suo Pensiero alla morte. C’è, inoltre, un secondo punto che mi pare importante: questo amore per Dio si manifesta con tutta la propria passione nel momento in cui egli attraversa momenti non facili e ostacoli che paiono insormontabili. È affascinante ripercorrere la vita del futuro Santo con i suoi tanti ostacoli, dalla salute delicata fin da bambino all’arrivo a Roma, dall’ammissione a segretario nella Nunziatura in Polonia ai sospetti per il suo modo d’impostare la pastorale con la Fuci, dal suo lento cammino in Segreteria di Stato fino all’episcopato ambrosiano, che qualcuno vide come un allontanamento dal Vaticano. L’allora Patriarca di Venezia Roncalli scrisse una bellissima espressione al neo nominato Arcivescovo di Milano: «Occorre sapere portare con fiducia la croce».
Poi Montini diventerà Papa in un periodo difficilissimo, succedendo proprio a Giovanni XXIII…
Fu veramente un “martirio bianco”, per esempio, portare avanti il Concilio essendo accusato, incompreso, eppure non arrendendosi mai fino – oserei dire – al trionfo dell’ultima omelia per i 15 anni del suo pontificato, quando pronunciò la stupenda frase: «Fidem servavi – Ho conservato la fede». Una terza caratteristica che vedo in lui è l’amore che fin da giovanissimo ebbe per la cultura, avendo sempre fiducia nel pensiero dell’uomo. Non a caso, nel Pensiero alla morte scrive: «Questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole. Assale, a questo sguardo quasi retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza».
Tutto questo affiora nella Causa di canonizzazione?
Emerge da tutte le testimonianze. In tale contesto, naturalmente, ha un ruolo anche Milano, che lui stesso, già divenuto Papa, definì la sua «palestra episcopale», un momento quasi di allenamento. La sua è sempre stata un’attenzione all’uomo concreto, e a Milano si vede molto bene. Da vescovo Montini voleva che la gente tornasse a “pensare Dio”, con il realismo dei progetti e delle opere. È la sfida della metropoli, simbolo del più generale momento di transizione della civiltà odierna, di cui egli comprende bene difficoltà e ansie. Capisce che ai milanesi, prima di tutto, bisogna insegnare (o re-insegnare) a pregare. È di fronte a tutto questo, che «la Chiesa deve seguire, guidare e precedere il progresso dei tempi», approfondendo, aggiornando e allargando la viva tradizione ambrosiana: «Non nova, sed nove» – «Non cose nuove, ma compiute in modo nuovo», osserva più volte. Penso alla prima visita che fece dopo l’ingresso come Arcivescovo: fu a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, tra gli operai, con un’iniziativa ben lontana dai modelli di allora.
Il non avere paura, per usare un linguaggio ormai diventato comune, è una qualifica anche di questo Papa?
Esatto. Non dimentichiamo l’omelia che tenne alla fine dell’Anno Santo 1975, quando disse: «Noi vedremo che, nella titanica lotta di questo momento storico, trionferà la civiltà veramente cristiana, la civiltà dell’amore». Pur tra molte tribolazioni, ne era assolutamente convinto, nonostante che quello che, già negli anni Trenta, aveva definito il fossato tra fede e vita si fosse drammaticamente allargato.