Don Virginio Colmegna e monsignor Marco Ballarini, presbiteri rispettivamente da 49 e 44 anni, commentano la raccomandazione che l'Arcivescovo ha rivolto ai sacerdoti ordinati il 9 giugno in Duomo

di Annamaria Braccini

colmegna-ballarini
Don Virginio Colmegna e monsignor Marco Ballarini

Ai 23 preti novelli ambrosiani ordinati in Duomo sabato 9 giugno, l’Arcivescovo ha raccomandato di essere «servi dell’inquietudine». Che significa? Ecco le riposte di due sacerdoti che hanno già compiuto un lungo ministero: don Virginio Colmegna (73 anni, ordinato nel 1969), già direttore di Caritas Ambrosiana e oggi presidente della Casa della Carità, e monsignor Marco Ballarini (69 anni, ordinato nel 1974), prefetto della Biblioteca Ambrosiana.

Colmegna: «Ascoltate la gente e mettetevi in discussione»

Cosa significa questa inquietudine, oggi, per un sacerdote come don Virginio Colmegna, che di anni di Messa ne ha quasi 50, spesi sempre sulle frontiere della povertà e dell’emarginazione? «Vuol dire cogliere la sofferenza e le dinamiche delle persone nel profondo. Oggi mi pare che vi sia una grande superficialità, mentre occorre andare ad aprire una continua ricerca e una capacità di ascolto. E poi è fondamentale interrogarsi. Mi permetto di citare il messaggio per la Giornata mondiale dei Poveri, nel quale la riflessione è rivolta proprio a guardare all’interiorità profonda. Per me essere servi dell’inquietudine significa che i preti, che sono a contatto con la gente, la ascoltino, si interroghino, si inquietino e rimettano sempre in discussione se stessi. E questo in termini positivi, sereni, con la capacità di cogliere che la sofferenza della gente ci riguarda e appartiene alla nostra umanità».

Anche perché, forse, il riferimento dell’Arcivescovo, più che guardare al mondo inquieto, è indirizzato a tenere viva l’inquietudine, ponendosi domande… «Sì. L’inquietudine è una capacità riflessiva che permette di superare l’indifferenza. È essere capaci di stupirsi sempre, di inventare quel pezzo di futuro che nasce dalle relazioni, dalla fraternità, dall’amicizia, dal cogliere e far diventare propria anche la gioia degli altri. Del resto è riprendere quello che dice la Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze degli uomini sono le gioie e le speranze della Chiesa”. Proprio questo sguardo è la passione ecclesiale di una Chiesa immersa nel mondo. Credo che sia un invito per i sacerdoti a recuperare una spiritualità dell’incontro e dell’ascolto con l’inquietudine nel non dare tutto per scontato».

Ballarini: «Rinunciate ai giudizi e rifiutate la banalità»

All’ombra di un tempio della cultura quale può essere il volto dell’inquietudine? Immediata la risposta di monsignor Marco Ballarini: «Avere a che fare con l’inquietudine, per uno studioso, è assolutamente inevitabile. La vera letteratura pone l’uomo davanti a se stesso e allora ecco la scoperta, o per lo meno il “sospetto”, della non autosufficienza, che rende inquieto il cuore. Quando fa questo, l’uomo può essere irretito nella colpa, nella follia o nella tentazione diabolica di dichiarare irreversibile, o addirittura irrinunciabile, la propria situazione di “peccatore”, ma si trova anche, come diceva Karl Rahner, “nel felice rischio di incontrare Dio”. Il cristiano, o il prete studioso di letteratura, deve anzitutto accogliere come un dono l’inquietudine di altri, con attenzione e rispetto, ponendosi al servizio di questo “felice rischio”, per evitare un altro rischio infausto. Stupiti da questa sottolineatura dell’inquietudine, infatti, rischiamo di dimenticare che l’affermazione dell’Arcivescovo va letta tutta d’un fiato: “Servi dell’inquietudine”; servi, quindi, e non padroni. Anche in questo la letteratura aiuta, facendoci sprofondare in quell’abisso che è il cuore dell’uomo, dove tutto sembra superare la nostra capacità di razionale “dominio”. Si tratta di un servizio che richiede grande pazienza, capacità di “ascolto”, rinuncia alla fretta di proporre soluzioni e ricette, rinuncia a voler dare subito un “giudizio”. Naturalmente il primo servizio da rendere è il rifiuto del peccato mortale della letteratura, come di ogni altra espressione umana: rifiuto della banalità, della superficialità e, nel nostro caso in particolare, della parola ridotta a chiacchiera».

Ti potrebbero interessare anche: