L’impegno della comunità cristiana nell’ambito dell’informazione va ripensato in un contesto profondamente cambiato. Rilanciare i mezzi tradizionali ed essere presenti nei social. Il professor Pier Cesare Rivoltella approfondisce questi temi
di Pino
Nardi
Ripensare i media e la strategia della comunicazione in un contesto profondamente mutato è il compito della Chiesa oggi. È necessaria inoltre la sua presenza nei social media, non solo nel loro utilizzo, ma anche nell’educazione delle giovani generazioni a un uso critico. Lo sostiene Pier Cesare Rivoltella, docente di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento all’Università cattolica di Milano e direttore del Cremit (Centro di ricerca per l’educazione ai media, all’informazione e alla tecnologia), che ha tenuto la scorsa settimana una relazione durante l’Assemblea generale dei vescovi italiani.
Come la Chiesa può e deve cogliere le trasformazioni nel mondo della comunicazione?
Per la Chiesa la comunicazione non è una opzione possibile, ma è un destino. Quindi una Chiesa che non comunica, che non si fa spazio di mediazione tra Dio e l’uomo, disattenderebbe a quella che è la sua missione storica. Questo è un elemento che costringe tutti, vescovi e credenti, a ragionare con grandissima serietà sui media e sullo scenario della comunicazione in generale. La Chiesa lo ha sempre fatto: in qualsiasi epoca della sua storia ha dovuto fare i conti con i media che erano contemporanei. Non è una scelta possibile, è un compito inevitabile.
La Chiesa deve esserci nei social media, ma deve svolgere anche una funzione educativa all’utilizzo di questi strumenti?
Assolutamente sì. Proprio per i valori, per la dimensione etica, per il tipo di testimonianza che attraverso la Chiesa dovrebbe passare, è evidente che ci si aspetta un rapporto serio nei confronti dei media digitali e sociali, soprattutto dal punto di vista della sua presenza educativa. Questa viene alla Chiesa anche dal ruolo che gli oratori giocano con adolescenti, ragazzi e bambini, nei quali ci sono spazi importantissimi non solo di evangelizzazione, ma di educazione. Quindi accettare la missione che porta naturalmente la Chiesa verso la comunicazione significa pensare a come essere presente dentro la nuova scena dei media digitali sociali con consapevolezza educativa e con capacità di testimonianza.
Ai vescovi ha parlato di pastorale 3.0. Cosa intende?
Intendo il superamento delle due dimensioni che fino adesso sono state frequentate dalla comunicazione della Chiesa. La prima è 1.0, la funzione informativa, fondamentale, di trasmissione assolta sia dai media tradizionali (Avvenire, Tv2000, settimanali diocesani), sia dai nuovi media quando sono utilizzati in prospettiva informativa e unidirezionale (penso all’account Pontifex del Papa in Twitter). C’è poi una pastorale 2.0 che prova a utilizzare i cosiddetti nuovi media, interpretandoli nella loro possibilità di comunicazione a due vie (WhatsApp o social a supporto, per esempio, della catechesi). Qui la Chiesa dimostra di saper interpretare e utilizzare i nuovi media nella loro specificità come tecnologie di gruppo, che consentono di mantenere la relazione con coloro che sono già stati raggiunti dall’annuncio, ma non di raggiungere nuovi fedeli. Una pastorale 3.0 è capace di coniugare l’apertura universale, tipica dei media tradizionali, la possibilità di raggiungere tutti, ma con le stesse caratteristiche di una comunicazione orizzontale a due vie tipiche della pastorale 2.0. La sfida è questa: sapere interpretare le specificità dei nuovi media e giocarle per l’annuncio anche ai lontani.
I media diocesani hanno ancora un ruolo importante sia nella crescita della comunità cristiana, sia nel dibattito pubblico?
La funzione è sicuramente ancora importante. Le tre dimensioni non si escludono reciprocamente, sarebbe un errore. Il tema è capire come quei media che vengono da un passato di grande ascolto dentro la comunità cristiana possano riprogettarsi e ripensare la loro presenza dentro la scena attuale. In una situazione generale di crisi della carta stampata, dei media mainstream, in cui invece sembrano essere i social lo spazio vincente della comunicazione, cosa significa per i media diocesani ripensare la propria presenza? Credo che sia la grande sfida con cui confrontarsi: ripensarsi dentro la nuova scena e capire quel tipo di mezzo e di messaggio cosa abbia ancora da dire e cosa debba invece modificare per tornare ad essere significativo. È una grande sfida, che però deve essere accettata e tradotta in progettualità comunicativa e pastorale. Se non lo si fa e si rimane assestati su posizioni tradizionali, credo che sia poi difficile sopravvivere.