Alla Messa vespertina presieduta in Duomo alle 17.30 da monsignor Delpini e aperta a tutti, sono invitati in particolare gli operatori sanitari. Le testimonianze dei presidenti dell'Associazione cattolica degli operatori sanitari della Lombardia e dell'Associazione medici cattolici di Milano

di Claudio URBANO

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Sarà un dialogo con chi ogni giorno dona speranza, quello che l’Arcivescovo instaurerà oggi pomeriggio in Duomo con gli operatori sanitari, prima della Santa Messa d’Avvento a loro particolarmente dedicata. Monsignor Delpini si metterà in ascolto, raccogliendo le testimonianze di un medico, un’infermiera e un operatore di radiologia che – spiega don Paolo Fontana, responsabile diocesano della Pastorale sanitaria – condivideranno il loro impegno quotidiano, in una professione in cui ogni giorno, accostandosi al malato, l’operatore mette in questione tutto se stesso.

«Il contesto liturgico dell’Avvento e la celebrazione eucaristica aiuteranno a sottolineare l’aspetto della speranza», anticipa don Paolo, sottolineando la volontà di dedicare questo spazio agli operatori prima ancora che ai malati, «perché se è vero che il malato è sempre il centro dell’azione di cura, sono il medico o l’infermiere le figure alle quali il malato si affida – ricorda Giulia Laganà, presidente dell’Acos, Associazione cattolica degli operatori sanitari della Lombardia -. Il malato affida a noi non solo la sua vita o l’attesa della guarigione, ma si affida anche psicologicamente. E noi non possiamo deluderli». Laganà auspica che dal Vescovo arrivi una parola di incoraggiamento per accostarsi al malato sempre con umanità, «con quella carica interiore che permette di guardare solo a cosa si dà e non al proprio tornaconto, tendendo le mani, come insegnava Madre Teresa di Calcutta, perché nell’accostarsi al malato ci si accosta a Gesù Cristo».

Proprio a una notte di Natale è legato uno dei momenti che hanno più toccato Laganà nel corso della sua professione: trovatasi senza lavoro dopo la nascita del secondo figlio nel 1981, dopo anni di impiego come segretaria d’azienda decise di entrare in ospedale come ausiliaria (il lavoro più umile che c’è in ospedale, seppur indispensabile, ricorda). La sera del 24 dicembre, al termine del turno, accompagnò alla morte, commuovendosi, un’anziana malata di tumore che le aveva chiesto di tenerla per mano: «Sono andata oltre il mio ruolo, ma non me la sentivo di staccarmi da quel letto», ricorda. Laganà, che ha lavorato fino a pochi mesi fa negli ospedali di Garbagnate e di Bollate, è poi “tornata” al suo lavoro amministrativo, sempre però a contatto con pazienti e loro famigliari. «Mi sono sempre spesa finché non avevo risolto il problema di chi si presentava alla mia scrivania – ricorda con una punta di orgoglio e giusta soddisfazione -. Anche perché nei nostri ospedali da parte di tutti non si è mai perso il senso di umanità e l’attenzione al paziente».

Della necessità di recuperare l’attenzione all’umanità del paziente a 360 gradi, andando oltre la sola competenza tecnica, parla anche Alberto Cozzi, presidente dell’Associazione medici cattolici di Milano, che avverte la difficoltà di un lavoro del medico ora «frantumato, stretto tra una medicina troppo tecnocratica e una richiesta di salute ormai eccessiva», spiega. «A fronte della competenza e dell’impegno individuale ciò che manca è la consapevolezza della responsabilità sociale del medico», avverte Cozzi, che si attende dall’Arcivescovo e dalla Chiesa la promozione di una formazione dei medici sul piano umano. Bisogna insomma “stare” nella relazione col malato, fermarsi a visitarlo, ascoltarlo. Perché «essere medico non significa solo competenza tecnica, ma mettere in pratica l’arte di comprendere l’altra persona».

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