Lo Spirito ci è donato per vedere nelle differenze le tracce della presenza di Gesù e del suo impegno per raccogliere i popoli in una unità che contempli le differenze stesse come dono di Dio. Così l’integrazione dei migranti non si riduce a una pratica di assimilazione destinata al fallimento
di monsignor Luca
BRESSAN
Vicario episcopale
La chiusura della visita pastorale ai migranti nel giorno di Pentecoste ha un sapore programmatico per la Diocesi. Un sapore che va colto e approfondito. Passati gli anni della presa d’atto della presenza straniera tra noi (una presenza che è anche cristiana e cattolica, e non soltanto musulmana, vale la pena ricordarlo), come Chiesa ambrosiana corriamo il rischio dell’assuefazione: esaurito l’effetto novità, si fa in fretta a tornare ai nostri stili consueti e alle nostre pratiche pastorali abitudinarie, nella convinzione che il processo di assimilazione, una volta avviato, porterà i nuovi arrivati a tingersi dei nostri colori abituali, confondendosi e sciogliendosi nel grande e vasto corpo diocesano.
La realtà tuttavia resiste alle nostre idee. E ci mostra un popolo migrante molto più denso e agglutinato, resistente ai nostri processi di assimilazione. Al primo stupore (il loro arrivo) si aggiunge così un secondo livello di stupore: la scoperta di una o addirittura più identità cattoliche che intendono abitare il nostro mondo avendo la pretesa non soltanto di chiederci spazi e accoglienza, ma anche dialogo e interazione, e di conseguenza riconoscimento. Da qui il nostro disorientamento, che si trasforma in resistenza: più di una comunità cattolica straniera ci ha confidato questa impressione di disagio e di giudizio esercitata da noi autoctoni, da noi cattolici ambrosiani, nei loro confronti.
Il miracolo di Pentecoste ci si pone dinanzi proprio con la sua forza simbolica e programmatica: la fede cristiana possiede di suo gli anticorpi per risolvere una simile situazione di stallo e di conflitti potenziali o in atto. Lo Spirito ci è donato per cogliere nelle differenze altrui le tracce della presenza operante e viva di Gesù risorto, e del suo impegno per realizzare quel disegno di raccolta dei popoli in unità che Dio Padre ha immaginato sin dalla creazione del nostro mondo. Una unità che contempli le differenze e le sappia cogliere come dono di Dio, fatto per arricchirci; una cattolicità che non persegue l’imperativo dell’assimilazione uniformante, ma si lascia condurre per i sentieri di una contaminazione reciproca, capace di osare nuove identità meticce, in grado di mostrare dimensioni e attributi inediti della nostra realtà (e anche del volto di Dio).
La chiusura della visita pastorale ai migranti a Pentecoste ha proprio l’intenzione di richiamare questo compito a tutta la realtà diocesana. Come pure la presenza di una parrocchia a loro dedicata: suo obiettivo non è fare dei migranti una realtà separata, ma evitare che i tentativi di integrazione si esauriscono in pratiche di assimilazione destinate al fallimento. Il cammino per preservare l’unità della nostra Chiesa è quello indicatoci dal miracolo di Pentecoste: lasciare che lo stupore ci dia energie per riconoscere nel diverso, nell’altro, i tratti del nostro Dio. È questo l’obiettivo della parrocchia dei migranti, essere in luogo in cui la Pentecoste produce i suoi effetti tutti i giorni dell’anno. Così che lo stupore possa essere usato come energia che dà dinamismo e profondità alla nostra dimensione cattolica.