L'Arcivescovo ha dialogato con i detenuti del carcere di Bollate. Tanti gli argomenti toccati, tra cui quelli del perdono, della giustizia, della misericordia e, naturalmente, della casa e del lavoro per un vero reinserimento nella società
di Annamaria
Braccini
Un dialogo “in famiglia”, a cuore aperto e a 360°. È quello che il cardinale Scola ha voluto e realizzato nel Casa di Reclusione di Bollate con alcuni detenuti.
Nel teatro della struttura, ad ascoltare l’Arcivescovo ,ci sono circa 150 reclusi, anche molte donne, in rappresentanza dei 1200 ospiti del carcere, 110 al reparto femminile, tra cui tre mamme con bimbi piccoli. Il canto “Madonna Nera” apre lo scambio tra domande – anche molto stringenti, elaborate dai reclusi del I Reparto – e le risposte del Vescovo. Accanto a lui, accompagnato dal vicario episcopale per l’Azione Sociale, monsignor Luca Bressan, i due cappellani, don Antonio Sfondrini e don Fabio Fossati e il direttore di “Bollate”, Massimo Parisi.
Iniziano le donne: Surrei domenicana, mamma, chiede dell’oratorio e se dopo alcuni fatti che hanno coinvolto preti pedofili siano un luogo sicuro; Rosio ventiseienne peruviana, si interroga sul «perché non ci sposa più né con rito religioso né civile».
«I nostri oratori, oltre 1000 in Diocesi, sono un luogo educativo fondamentale che viene ammirato in tutto il mondo, basti pensare ai 400.000 ragazzi che partecipano all’oratorio estivo ed è, poi, molto interessante che tanti giovani che li frequentano provengano da altre religioni, specie la musulmana. Tutto questo è apprezzato dai genitori che sanno di poter affidare a sacerdoti e laici i loro figlioli in un ambiente sano e rispettoso», nota subito l’Arcivescovo che, tuttavia, in riferimento appunto a fatti che hanno coinvolto alcuni sacerdoti, aggiunge: «Non nego che vi siano stati taluni episodi – nella nostra Chiesa pochissimi perché siamo 3000 tra preti diocesani e consacrati e non si è mai arrivati a superare i 10 casi in due o tre anni –, ma credo che tutte le famiglie possano, in modo sostanziale, restare serene».
Problema grave, anche quello posto della seconda domanda, di cui il Cardinale loda la franchezza: «Qui, nelle carceri, ho sempre trovato la possibilità di parlare chiaro e di essere ascoltato, comprendendo i cambiamenti profondi nella nostra società: per questo vi ringrazio».
«Diminuiscono i matrimoni perché la gioventù è immersa in un ambiente liquido che è molto frammentato. La difficoltà è il “per sempre”, che dipende da talune condizioni oggettive, come la mancanza della casa e del lavoro, ma non possiamo negare che lentamente sta scomparendo, soprattutto nelle nostre società opulente europee, il vero senso dell’amore. Tutti crediamo di sapere già amare, mentre bisogna imparare ad amare l’altro come altro. I giovani hanno paura e pensano che legarsi per sempre sia troppo impegnativo, invece il “per sempre” è parte costitutiva dell’amore. Il “per sempre” non si sostituisce cambiando continuamente partner: dobbiamo dirlo ai nostri ragazzi».
Vangeli, misericordia e giustizia, perdono
Si prosegue: Erjon, che da due anni si sta preparando per ricevere il battesimo con una formazione attraverso il Vangelo di Marco, dice: «Ci possiamo fidare dei Vangeli, anche perché pare che ora ne sia uscito un altro (il Vangelo di Giuda n.d.r.)».
«Questa è una domanda molto profonda. In ultima analisi, i Vangeli sono frutto non solo dell’uomo, ma anche dello Spirito santo; sono autentici e veritieri, perché sono ispirati. Questo non vuol dire che gli “Apocrifi” non abbiamo anche elementi utili, ma ricordiamo che su questi ultimi non c’è l’impegno autorevole della Chiesa che non è, anzitutto, una struttura o un’organizzazione, ma un’esperienza viva. Su ciò dobbiamo fondare la nostra certezza di fronte alla verità, garantita dalla Spirito, dei 4 Vangeli».
È la volta di Marco, che si definisce «un credente che ha sbagliato e ammetterlo è già un primo passo per un nuovo percorso». Parla, Marco, della parola «misericordia, come ci ha detto il Papa, che in un carcere coinvolge tutti anche gli operatori. Vorremmo sapere se coloro che amministrano abbiamo recepito il messaggio di papa Francesco; ci chiediamo se tale messaggio viene trasmesso a chi gestisce la giustizia terrena».
Mauro è consapevole di fare una domanda scomoda sul «perdono che, per alcuni di noi, è uno scoglio impervio. Dobbiamo chiedere perdono alle vittime dei nostri reati, ma la cronaca ci dice che esistono condanne ingiuste o sproporzionate, magari vedendo riconoscere, dopo anni, la propria innocenza. In questo caso, il perdono è difficile da elaborare e rimane il risentimento perché chi sbaglia verso di noi e, comunque, continuerà tranquillamente a inquisire e a emettere sentenze».
Particolarmente sentita la risposta di Scola che cita le parole rivolte ai reclusi di “San Vittore” dal Santo Padre, “Io sono qui perché, per me, voi sete Gesù è Gesù dal cuore ferito”. «Ho visto tanti piangere, questa è un’importante espressione di misericordia e non di compatimento. La misericordia, infatti, è l’abbraccio del figlio di Dio fatto uomo che è morto per la nostra salvezza e che ci può liberare dal male».
«In 26 anni di Episcopato ho visitato 3-4 volte l’anno le carceri e raramente ho trovato la possibilità di un dialogo così libero, perché spesso noi, che siamo al di là delle sbarre, non siamo disposti a riconoscere i nostri errori. Certo, non è facile tenere insieme misericordia e giustizia che sono coincidenti solo in Dio. La nostra giustizia umana è sempre imperfetta e, quindi, dobbiamo come corpo organico di cittadini, pur con idee diverse, creare le condizioni perché ognuno svolga bene il proprio compito con onestà e appassionato desiderio affinché ogni uomo possa essere riconosciuto nella sua dignità che non va mai perduta». Un applauso spontaneo sottolinea il richiamo dell’Arcivescovo chiaramente rivolto anche a chi ha responsabilità nel giudizio e nelle condanne.
«Per poter continuare ad abbracciare e riabbracciare l’altro occorre riconoscere il nostro male e lasciarci perdonare. Che, anche nell’amministrazione della giustizia vi sia ingiustizia, è terribile, ma è umano. Vi consiglio di affidare a Dio la capacità di perdonare. Il nostro compito è testimoniare a tutti la bellezza del perdono, ma per farlo bisogna lasciarci perdonare nel profondo da Dio, cambiando vita. Questo è un campo in cui non si può fingere».
L’impegno della Chiesa a favore dei detenuti: casa e lavoro
Francesco, milanese, chiede quale sia «l’impegno che la Chiesa ambrosiana ha per un aiuto concreto e istituzionale nel sostenere i detenuti e per la reale possibilità di mettere a disposizione luoghi formativi e operativi al fine dell’inserimento nella vita sociale e lavorativa».
Battista: «Come le parrocchie, i movimenti possono aiutare, soprattutto i giovani, a non avere problemi con la giustizia e il carcere?»; Khan riflette sulle difficoltà, specie tra le celle, della coesistenza con chi è immigrato; Aristide: «Cosa può fare la comunità Cristiana per far crescere una cultura del perdono che porti all’accoglimento e non all’esclusione?». Infine Ernesto che, in riferimento agli appartamento ristrutturati dalla Diocesi e offerti a canone agevolato a famiglie (il dono simbolico al Papa per la sua Visita), domanda: «Tra questi qualche casa sarà destinata a detenuti che possono godere dei benefici dei permessi premio e non hanno un luogo dove andare?».
Scola riparte dal concetto di perdono: «Non è del tutto vero che “gli uomini non perdonano mai”, ma semmai facciamo fatica a perdonare nel senso vero e totale della parola: Al massimo chiediamo scusa, mentre il vero perdono fa sentire un germoglio nuovo nella vita con il cuore che si spalanca in modo diverso: chi perdona così trova ultimamente pace. Perdonando si impara a lasciarsi perdonare da Dio. Questo richiede un impegno quotidiano di riscatto e per evitare che i giovani commettano peccati e reati, si deve trasmettere loro appunto il senso pieno della vita: questo è il problema numero 1 della nostra Europa di oggi, l’educazione. Quello che noi possiamo fare come parrocchie e associazioni è realizzare ambiti belli in cui vivere tale senso autentico trovando ogni giorno il desiderio di rincominciare e il “per chi” farlo, Gesù».
«Come Chiesa, il primo grande dono che diamo sono i Cappellani che – dice il Cardinale ai presenti – vi vogliono bene e non cessano di far sentire il perdono di Dio che è vostro alleato. Certo, abbiamo talune iniziative, come le Cooperative legate a Caritas ed è innegabile che si sia fatto molto negli ultimi tempi, ma è ancora poco. Per la casa ci stiamo muovendo perché casa e lavoro sono gli elementi di cui avete assolutamente bisogno. Occorre essere onesti: al di là dei cappellani e dei volontari, dal punto di vista strutturale facciamo ancora poco. Però, soprattutto negli ultimi due o tre anni, ci stiamo organizzando, perché c’è la coscienza del problema».
Accoglienza e volontariato
Anche sui migranti l’indicazione è chiara: «Mi pare di poter dire che la Chiesa fa la sua parte, con un primo intervento, ma bisogna che le realtà dell’Europa unita elaborino un progetto politico equilibrato per aiutare i migranti nelle loro terre e fare, ove necessario, spazio qui. Ma occorrerà che anche l’immigrazione si adegui a quella che è la nostra realtà e sensibilità».
C’è ancora tempo per un emozionato Anacleto, 76 anni che, detenuto da 9 anni a “Bollate”, vorrebbe fare qualche lavoro di volontariato . «Giusto, bello», scandisce l’Arcivescovo, «dobbiamo essere aperti all’altro e il modo è condividere il bisogno: questo permette di sentirsi vivi».
Alla fine, tanti applausi, la stretta di mano portata a ognuno, i moltissimi selfies con il Cardinale che spiega: «Ho cercato di dire ciò che veramente ho nel cuore e penso. Se qualcuno vuole continuare questo colloquio può scrivermi. Manderò al carcere una somma per acquistare libri».
Insomma, davvero, come evidenzia un soddisfattissimo direttore Parisi: « È la capacità di relazione umana che fa la differenza della qualità degli Istituti di pena».