Don Donato Cariboni, cappellano all’ospedale Città di Sesto San Giovanni, racconta la sua esperienza nel portare conforto spirituale ai sofferenti
di Stefania
CECCHETTI
La preghiera come conforto nella sofferenza e antidoto alla solitudine. È questa l’esperienza di don Donato Cariboni, cappellano all’ospedale Città di Sesto San Giovanni. «Il mio ministero di cappellano consiste nel fornire assistenza spirituale e religiosa ai pazienti ricoverati, che visito nelle loro camere, anche con il supporto dei volontari- racconta -. Ma mi occupo anche dell’accompagnamento del personale, quello medico-infermieristico e quello occupato nei servizi. Anche con loro, dalla vicinanza e dalla frequentazione quotidiana, spesso nascono rapporti personali anche molto profondi, di condivisione dei momenti difficili, ma anche degli eventi felici, come possono essere un battesimo o un matrimonio».
Una prova sotto lo sguardo amico di Dio
Cosa vuol dire pregare insieme ai pazienti? «L’ammalato si trova in una situazione molto particolare della vita – spiega don Cariboni -. Un momento nel quale si arriva al dunque, cadono tutte le maschere e ci si confronta sulle domande importanti della vita: che senso ha il mio vivere? Come la malattia interferisce con i miei progetti e il mio desiderio di felicità? In questa situazione di sofferenza, la preghiera offre l’occasione di affrontare la prova non da soli, ma sotto lo sguardo amico di Dio, che ci è vicino e che si fa compagno nella difficoltà. In ogni camera c’è un crocifisso e tanti malati mi dicono che, guardandolo, trovano speranza per il loro soffrire».
Quella Madonna sul sasso
È una preghiera, quella dei malati, che è ridotta all’essenziale, spiega ancora don Cariboni: «Preghiamo con preghiere semplici perché i pazienti sono quasi tutti sdraiati, fanno fatica a leggere testi complessi». E quando sono alla fine e non hanno nemmeno più la possibilità di parlare, vengono in aiuto i gesti: «Mi sempre rimasta nel cuore una paziente oncologica senza più speranze – ricorda don Cariboni -. Un giorno chiese a me e al primario di aiutarla a morire, ma da quell’urlo di dolore, da quel rifiuto profondo, nacque invece un percorso molto bello di preghiera e accettazione. Negli ultimi giorni non riusciva più nemmeno a parlare: le diedi allora un sasso con dipinta l’effige della Madonna, proponendole di prenderlo tra le mani quando avesse sentito il bisogno di pregare. Quando pochi giorni dopo fu trovata senza vita degli infermieri, aveva il sasso stretto in una mano».
Durante la pandemia
Don Cariboni ricorda anche la preghiera come unica salvezza durante la prima terribile ondata di Covid: «In quei mesi non avevo il permesso di girare tra i letti, l’unico gesto che mi rimaneva era la preghiera per i malati e il personale, che recitavo ogni giorno dalle stanze dei caposala, gli unici luoghi a cui avevo accesso. L’impotenza del fare è stato uno stimolo ancor maggiore a credere nella potenza della preghiera».
Ma in quei giorni difficili la preghiera è stata senza dubbio anche un antidoto alla solitudine di tutti, ricorda ancora il sacerdote: «Benedicevo dal cortile, guardando verso le camere mortuarie, i pazienti morti in isolamento e poi telefonavo ai parenti per rassicurarli: i loro cari erano morti senza la vicinanza della famiglia, ma con il conforto dei medici e degli infermieri e almeno l’ultima benedizione di un sacerdote».