Lunedì 10 ottobre è la Giornata mondiale di promozione di un diritto umano da garantire anche al di là delle emergenze, e la cui tutela non va delegata esclusivamente agli specialisti: l’intera comunità, in particolare, è chiamata a combattere i pregiudizi di cui è oggetto
di Luciano
Gualzetti
Direttore di Caritas Ambrosiana
Assenza di malattia? Non è così. O, perlomeno, non è solo così. Per definire la salute mentale è opportuno evitare di occuparsene solo quando viene meno: essa è un equilibrio dinamico, da costruire, salvaguardare, mantenere costantemente, nelle relazioni con sé, con gli altri, con la comunità d’appartenenza. È una componente ineludibile dello stato di benessere della persona e della società: non c’è salute, senza salute mentale.
Questo equilibrio è minacciato da vari fattori. A cominciare dalla non rara difficoltà di farsi curare da parte delle persone malate. Molte reputano di non esserlo, quindi non si rivolgono ai servizi di cura, oppure dopo un certo tempo smettono di seguirne le indicazioni. Inoltre, nonostante gli innegabili progressi clinici e giuridici, la malattia mentale continua a essere avvolta da pregiudizi personali e stigmatizzazioni sociali e culturali che finiscono per ostacolare la cura effettiva. E la comunicazione mediatica, sempre alla ricerca di scoop, non fa che irrobustire tali pregiudizi.
Si parla poco del fatto che la salute mentale – così come la salute tout court – sia un diritto umano, e che garantirla sia fattore anche di razionalità organizzativa ed economica, per alleggerire la forte pressione che la malattia mentale esercita sui sistemi sanitario, educativo, del lavoro. Nonostante questo, si continua a inseguire l’emergenza e si investe poco in prevenzione.
L’importanza delle relazioni
La salvaguardia della salute mentale non può dunque essere appannaggio solo di tecnici e professionisti, utili e importanti, ma richiede anche il coinvolgimento di esperti di relazione e della quotidianità, ossia di volontari, parenti, conoscenti, vicini di casa, che sappiano contrastare il moto centrifugo al quale i malati mentali sono spesso soggetti. Spesso i servizi specialistici non conoscono o non frequentano il territorio, sono luoghi di lavoro, ma non di vita. Allora tocca anche al cittadino preoccuparsi di cogliere segnali di disagio, favorire il ricorso ai servizi, accompagnare il malato nel suo percorso.
Soprattutto, spetta alla comunità, in primo luogo quella che si intende radicata nel Vangelo, adoperarsi per diminuire il pregiudizio e lo stigma, promuovendo una cultura di solidarietà e di cittadinanza attiva. La comunità è il terreno sul quale si gioca la partita del superamento dello stereotipo secondo il quale malato mentale è sinonimo di persona aggressiva e pericolosa. Occorre esigere il rispetto dei diritti del malato, aiutandolo nel contempo a uscire dall’isolamento relazionale a cui viene spesso relegato da altri, oltre che da se stesso.
Un sistema da migliorare
La malattia mentale è invalidante anche oltre l’orizzonte strettamente clinico. Quando ci si ammala, spesso si perdono lavoro, autonomia abitativa, relazioni, capacità di vivere una vita soddisfacente. Chi si ammala, ha più probabilità di diventare povero e marginale.
Se non si attivano politiche di prevenzione, specialmente a livello giovanile, non ci si può dunque stupire del diffondersi di atti aggressivi, di casi di depressione, di forme di apatia-rassegnazione. E dell’ampliarsi dell’area di marginalità sociale. Ma in Lombardia e in Italia i servizi preposti alla prevenzione e alla cura (non solo della salute mentale) soffrono una grave carenza di personale, che porta anche a chiusure parziali di servizi. Le liste di attesa sono insostenibili, si risponde troppo spesso con affanno alle domande di diagnosi e accompagnamento. Il nostro sistema sanitario deve darsi maggiori e più incisivi strumenti per garantire la salute mentale: anche sul versante dell’advocacy e della sollecitazione politica, le nostre comunità sono chiamate a fare la loro parte.
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