Nel giorno di Natale, l’arcivescovo Delpini ha celebrato, in Duomo, il Pontificale di Natale. «Non so da quando abbiamo finito di sperare in questo nostro vecchio Continente, ma so che possiamo continuare a farlo solo accogliendo Cristo»
di Annamaria
Braccini
L’“Adeste fideles” che, in ogni parte del mondo, canta il Natale del Signore e i Dodici Kyrie, tipici delle Solennità della nostra Chiesa, aprono, in Cattedrale, il Pontificale di Natale.
Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è nato e, per questo, l’intensa omelia di monsignor Delpini, che presiede la Celebrazione, è, insieme, un grido di allarme sulle derive del mondo di oggi e un cantico di speranza.
«Quand’è che abbiamo finito di sperare? Da quando l’immagine del futuro incombe come una minaccia, invece che come una promessa? Come è successo che, a proposito dei bambini, ci si chieda quanto costano invece di chiedersi come possano essere una casa e il mondo intero un benvenuto accogliente? Come stupirsi, poi, che non nascano più bimbi, promessa di futuro per l’umanità, visto che i bambini costano troppo? Quale scienza si è sviluppata così da mortificare la meraviglia, per ridurre la questione a quanto occorre investire e a quanto può rendere una scoperta?».
La risposta certa, «per domande epocali che sfidano il corso della storia e la forma che sta assumendo la nostra società, sottratta alla ricerca del bene di tutti e consegnata al calcolo», forse, non la possiede nessuno – nemmeno l’Arcivescovo –, se non per quell’annuncio che cambia tutto. «Non posso tacere la mia fede, la fede della Chiesa: la nostra speranza è fondata sulle promesse di Gesù, sulla sua parola affidabile, sulla sua vita che diventa la nostra vita».
Ma per questo occorre fare spazio al Bambino. «Non so da quando abbiamo finito di sperare, in questo nostro vecchio Continente, ma so che possiamo continuare a farlo solo accogliendo Cristo».
E, poi, ancora, uno degli interrogativi che, anche in queste ore che dovrebbero essere di serenità, sferzano le coscienze. «Perché abbiamo rinunciato a costruire la pace? Perché siamo indotti a disperare dell’uomo e del buon senso e, quindi, a rassegnarci alla follia della guerra? Come è possibile che, per costruire armi che seminano morte, si spenda di più che per cercare come sfamare chi ha fame, guarire chi è malato, costruire case e scuole e rendere l’aria più respirabile? Come è successo che siamo più inclini a subire le cronache di guerre e di morte invece che a entusiasmarci per imprese di pace?».
Anche qui la risposta e la soluzione non sono a portata di mano, ma il Vescovo cita l’Inno degli angeli «che dà gloria a Dio e dice: “Sulla terra pace agli uomini che egli ama”. Non posso tacere – scandisce – la parola profetica che indica in Gesù il principe della pace».
La pace autentica, non quella delle mode del momento, delle «ideologie si rivelano seducenti, promettendo paradisi in terra, ma che sono ingannevoli, con profeti arrabbiati destinati a restare voce risentita nel deserto. Mentre i discepoli di Gesù sono il popolo della pace che percorre i secoli, che si mette di mezzo tra gli uomini in guerra, nei conflitti sulle strade delle nostre città, per continuare il canto degli angeli».
E, allora, la domanda si fa radicale per i credenti, ma anche per chi crede di non credere: «Quale presunzione ottusa ha convinto gli uomini e le donne del nostro tempo a vivere senza Dio, a vivere senza pregare? Quale assurdo groviglio di disperazione e di distrazione, di risentimento e di mortificata razionalità ha insinuato la persuasione che siamo condannati a morte, che siamo nati per morire, che il nostro destino è il nulla e che conviene vivere allegramente la morte piuttosto che desiderare la vita eternamente felice? Quale egoismo spropositato ha indotto a pensare che l’io è il centro del mondo e il criterio del bene e del male: questo io fragile, smarrito e, insieme, arrogante e suscettibile che non può ammettere di aver ricevuto la vita e si vanta di potersi dare la morte?».
La risposta, ancora una volta, è nella rivelazione di una Nascita: «L’uomo può decidere di fare a meno di Dio, ma Dio non può, non vuole fare a meno di ogni uomo, di ogni donna. Dio non è la caricatura assurda che qualche pensatore fantasioso ha tratteggiato. Perciò, fratelli e sorelle, cercate Gesù, perché senza di Lui non possiamo fare nulla. Questa grande gioia vi annuncio, questa via di salvezza ho la responsabilità di indicarvi, questo solo ho da dirvi: Dio è qui per noi, per me, per te, per darci la sua vita. Ecco perché la celebrazione del Natale moltiplica la gioia e aumenta la letizia».
E, a conclusione dell’omelia, arriva dal Vescovo anche la traduzione sintetica – in inglese, spagnolo e francese – del “cuore” della sua riflessione di speranza, gioia e pace, così come anche la benedizione viene invocata in più lingue dopo la benedizione papale con l’indulgenza plenaria, “per facoltà ottenuta da sua santità Francesco”.