All’Università Cattolica le parole di monsignor Martinelli al terzo Laboratorio nazionale verso il Convegno di Firenze. Gli interventi di Anelli, Giuliodori, Ambrosio, Giaccardi, Pessina e Petrosino
«Il tema del rapporto lavoro-società è uno dei temi antropologici più complessi. Forse uno dei rischi più gravi che sperimentiamo oggi è l’isolamento della persona nel suo rapporto con il lavorare», il lavoro diventa «cifra della sua collocazione all’interno della società»: l’ha detto monsignor Paolo Martinelli, vescovo ausiliare ambrosiano, avviando i lavori della sessione pomeridiana del terzo Laboratorio nazionale verso Firenze 2015 su «Nuovo umanesimo: fragilità e cura, lavoro e società», presso l’Università Cattolica di Milano. Per Martinelli, occorre «ricollocare l’esperienza del lavoro nella prospettiva della relazione individuo-società», privilegiando «la centralità della persona».
«La nostra società non è fondata sul lavoro, ma sul consumo – ha detto invece Silvano Petrosino, filosofo della comunicazione della Cattolica -. I giovani non sono in difetto, non vanno colpevolizzati. Non trovano lavoro perché non c’è, si produce moltissimo e non si riesce a consumare. L’idea che per far crescere l’economia bisogna incrementare i consumi è demenziale, è come promuovere l’industria farmaceutica invitando la gente ad ammalarsi di più». Disoccupazione, iper-specializzazione, automazione: queste, secondo Petrosino, le derive odierne del lavoro. E il lavoro non può essere ridotto alla professione: «Dobbiamo evitare la trappola di ragazzi che si sentono falliti perché non hanno un lavoro e dire con chiarezza che non è vero che chi non ha un’occupazione è un fallito».
Di Roberta, 40 anni, romana, il primo dei “racconti” provocatori proposti al Laboratorio, a cui ha dato voce Arianna Scommegna: guadagna 200 euro al mese insegnando in una scuola serale con un contratto di collaborazione, e un pomeriggio alla settimana insegna a un corso della Regione: «La maggior parte dei docenti della mia scuola lavora in nero», dice, confessando rabbia, frustrazione, stanchezza, l’umiliazione di dover ancora ricorrere all’aiuto della madre. Parla poi un ex dirigente della progettazione in una multinazionale di produzione di turbine ad alto rendimento, cui dà voce Gabriele Paoloca, che per tre mesi ha tentato di tenere nascosto alla moglie il suo licenziamento per poi sentirsi dire che ne era a conoscenza. E poi la vicenda letteraria di una coppia di operai, costretti, lui ai turni di notte, lei a quelli di giorno, e le testimonianze di Luca, Mattia e Gioia (diocesi di Padova e Cuneo).
Monsignor Arrigo Miglio, arcivescovo di Cagliari e presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani, ha presentato gli Atti della 47ª Settimana sociale tenutasi nel 2013 su “La famiglia speranza e futuro per la società italiana”. Secondo il presule, la famiglia contribuisce a «un futuro di speranza per i giovani» e a «una società civile più libera, dove i diritti della persona possono essere maggiormente rispettati. Ci occupiamo della famiglia perché ci sta a cuore il bene di tutti, di tutto il nostro Paese». Gli Atti, ha osservato, «possono aiutarci a dare motivazioni condivise tra credenti e non credenti, anche attraverso un confronto con altri Paesi europei dove le politiche pro-famiglia sono state impostate da anni e non su pressione della Chiesa, ma per ragionevolezza».
«L’incontro con la realtà come fondamento per interpretare il nostro annuncio del Vangelo: a questo ci chiama papa Francesco”, ha detto monsignor Fabiano Longoni, direttore Ufficio nazionale per i problemi sociali e del lavoro della Cei, concludendo i lavori. Da lui l’invito a leggere, prima di andare a Firenze, il n. 22 della Gaudium et spes, «centro dell’umanesimo cristiano». «Noi – ha spiegato – ci sentiamo responsabili di promuovere tutta l’integralità dell’uomo nelle diverse realtà in cui si esprime». Il passo ulteriore, ha specificato, «è pensare obiettivi, strutture e metodi pastorali nuovi; per rispondere a tutti i problemi bisogna passare da massa a popolo di Dio». Di qui una precisazione: «Non ci rivolgiamo all’uomo astratto, ideale, il nuovo umanesimo riguarda l’uomo concreto, reale, ciascun uomo», e l’invito a «tenerlo presente a Firenze: quello che lì andremo a discutere e quello su cui rifletteremo è l’uomo concreto, storico, attraverso il quale Cristo si è incarnato, ha lavorato con mani d’uomo e amato con cuore d’uomo». Oggi, ha concluso, occorre «proporre un nuovo modo di sussidiarietà circolare» ed «essere presenti con nuovi modelli di economia».
Riconoscere e accogliere le fragilità
«Servire vuol dire avere la capacità di educare in modo utile: per noi la cura possibile alle fragilità è educare in modo che i vasi d’argilla di cui parla papa Francesco siano resistenti e resilienti di fronte ai colpi della vita», ma servire è anche «avere cura della fragilità ed essere custodi delle creature fragili». L’ha detto in mattinata Franco Anelli, rettore dell‘Università Cattolica, nel saluto con cui ha aperto il Laboratorio. L’assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo, monsignor Claudio Giuliodori, ha richiamato la centralità dell’antropologia e della persona umana: «L’Università cattolica si sente fortemente interpellata da questi temi, al centro degli Orientamenti pastorali del decennio, e anche dai temi del Convegno di Firenze».
«L’incompiutezza della nostra umanità si vede attraverso la nostra fragilità. I volti della fragilità sono davvero tanti, possiamo anche mascherarli per tentare di apparire forti e vincenti», ma il rifiuto di «questa fragilità produce l’effetto più disastroso, ci distoglie dalla realtà, ci astrae, ci isola rinchiudendoci in una gabbia»: così monsignor Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza e vicepresidente del Comitato preparatorio del Convegno di Firenze. Il presule ha esortato a non rifiutare le fragilità, ma a riconoscerle e accoglierle; questo «è il primo passo per la loro cura». Lo sguardo deve essere fisso su Gesù: nella sua croce «Dio mostra la sua capacità e potenza di cura» ed è proprio in Cristo che «l’umanesimo è sempre nuovo, creativo».
«Come reintrodurre la dimensione della concretezza nel nostro impegno? L’umanesimo, nella deriva disumanizzante di oggi, non va solo annunciato, deve essere incarnato? In che modo?». A porre l’interrogativo è stata Chiara Giaccardi. Da alcuni partecipanti l’indicazione di guardare alle persone ferite come a «portatrici di umanesimo», ma anche la sottolineatura che l’incarnazione va vista come «dialettica croce-resurrezione», e occorre farsi interrogare dal «tema della relazionalità», «luogo non solo di crescita, ma anche di sconfitta». «Molte persone che si dicono non credenti hanno in sé valori che ci fanno pensare alla “trasversalità” dell’umanesimo cristiano – ha osservato Donatella Cavanna, psicoterapeuta -. Le persone malate di cancro non sono la malattia: sono persone con una vita che va avanti. Il mistero della persona è presente anche per noi psicoterapeuti. Pure quando sembra non ci sia possibilità di tendere la mano, già il fatto di essere testimonianza silenziosa e competente può essere importante».
Sulla «trasversalità dell’umanesimo cristiano» perché «accoglienza, empatia, attenzione all’altro» sono condivise anche da molti «non credenti», si è soffermato anche Gianpaolo Azzoni (Università di Pavia), secondo il quale la «ferita strutturale che ciascuno di noi ha deve essere allargata in due sensi, orizzontalmente (nella comunità) e verticalmente, in Dio». Per Adriano Pessina (Università cattolica), «prima di voler cambiare il mondo, uno dei grandi sforzi che dobbiamo fare è rivedere l’ordine dei nostri pensieri, uscire dal teologicamente e pastoralmente corretto, osare, puntare all’essenziale, non si può dire tutto su tutto». Per Pessina il primo «sforzo educativo» è «la difficoltà di far percepire a chi non ha esperienze dirette o indirette di disabilità che occorre tenere sempre conto di tutto l’umano; far capire a chi sta bene che nella sofferenza c’è da giocare l’umano».
Per il prorettore dell’Università cattolica, Francesco Botturi, «la vicenda di Cristo va compresa nella resurrezione – sintesi corporea, psichica e spirituale dell’uomo – perché è emblema della nostra. Questo l’annuncio che bisogna fare, altrimenti rischiamo di dire cose antropologicamente bellissime, ma non arriviamo al punto che dà la vera speranza ed è motivo di pacificazione: il malato ha la sua identità nel mistero della sua resurrezione in Dio».