Cinquant’anni fa il trionfo al Tour de France del campione bergamasco che, partito come gregario di Adorni, sconfisse il favorito francese Poulidor, conquistando anche i tifosi transalpini. E pensare che Felice, a quella corsa, non avrebbe dovuto partecipare...

di Mauro COLOMBO

Romanzo giallo

Alla vigilia del Tour de France edizione 52, nel 1965, tutti i suiveurs erano convinti: sarebbe stato l’anno di Raymond Poulidor. L’assenza di Jacques Anquetil che, dopo aver fatto cinquina nel 1964, aveva rinunciato per concentrare la preparazione sul Mondiale, doveva spianare la strada al “contadino” di Limoges: gran pedalatore, generoso, ostinato, ma non sempre sagace tatticamente, e per questo regolarmente beffato dal fuoriclasse normanno. Per Poulidor – che i francesi chiamavano vezzosamente PouPou – insidie potevano arrivare dall’italiano Vittorio Adorni, vincitore del Giro, dal belga Rik Van Looy, dal veterano spagnolo Martin Federico Bahamontes, dal tedesco Wolfshohl (suo compagno di squadra, che l’aveva battuto alla Vuelta) e da due connazionali, il maturo Anglade e il giovane Aimar.

Certamente Poulidor non pensava a un 22enne neoprofessionista bergamasco: si chiamava Felice Gimondi, correva nella Salvarani (la stessa squadra di Adorni) e al Giro era giunto terzo. Non ci pensava perché neppure Gimondi, fino all’immediata vigilia, era convinto di correre il Tour: venne iscritto all’ultimo momento, in virtù del forfait di un compagno di squadra e di una felice intuizione del suo direttore sportivo Luciano Pezzi, che lo giudicava in condizioni di forma tali da poter reggere anche l’impegno francese, dopo aver ben figurato nella corsa rosa.

Gimondi partì con l’obiettivo dichiarato di aiutare Adorni e fare esperienza. Ma già nella seconda tappa, sul pavé, mostrò di che pasta era fatto: andò in fuga e sfiorò la vittoria nel velodromo di Roubaix. Il giorno dopo, a Rouen, ci riprovò e realizzò l’en plein: vinse la frazione e indossò la maglia gialla. Facevano sensazione il suo spavaldo modo di correre e la sua capacità di imporre ritmi altissimi, che gli altri faticavano a reggere. Il primo autentico banco di prova era la semitappa a cronometro di Châteaulin: Poulidor vinse, secondo pronostico, ma Gimondi gli rese solo 7 secondi, mentre al terzo posto brillava l’altro giovane italiano Gianni Motta.

La svolta nella tappa pirenaica dell’Aubisque e del Tourmalet: ceduta provvisoriamente la maglia gialla al belga Van de Kerkchove, Gimondi se la riprese con gli interessi e anzi, senza una foratura, avrebbe inflitto un grave distacco a Poulidor. Intanto Adorni, stremato dalla fatica e da problemi di digestione, si ritirava, consegnando di fatto la leadership della Salvarani al giovane compagno, a cui non pesavano affatto la pressione del primato in classifica e la responsabilità dei nuovi galloni.

E PouPou? Non era nel suo miglior periodo di forma, ma confidava ugualmente che le “trappole” disseminate lungo il percorso – l’ascesa sul Mont Ventoux, le Alpi, la cronoscalata del Mont Revard e la cronometro finale da Versailles a Parigi – sarebbero state più che sufficienti per permettergli di vestire finalmente le maillot jaune, fin lì sempre sfuggitogli.

Il Ventoux parve dargli ragione. Sul torrido cono della Provenza, in uno scenario lunare, Gimondi commise l’errore di rispondere all’attacco di Motta – che a sua volta replicava agli scatti dello spagnolo Jimenez – e finì in debito d’ossigeno. Poulidor ne approfittò per staccarlo. Ma qui Gimondi dimostrò una maturità stupefacente per un corridore al primo anno di professionismo: gestì il momento di crisi, ritrovò il suo passo e negli ultimi chilometri ridusse il distacco dal francese vincitore di tappa, salvando la maglia gialla per una manciata di secondi.

Poulidor era stupito e contrariato dalla resistenza del giovane italiano, tuttavia continuava a sperare nelle tappe alpine. Invece sull’Izoard, tra le guglie di roccia della Casse Deserte che avevano fatto da sfondo alle imprese di Bartali e Coppi, fu Gimondi ad avvantaggiarsi: in classifica guadagnò solo 5 cinque secondi, ma la rendita sul piano morale fu enorme.

Era chiaro che il duello decisivo avrebbe avuto luogo sul Mont Revard, nella cronometro in programma quando Parigi era distante solo quattro tappe. Gimondi, partito con un vantaggio di 39 secondi, andò fortissimo nella prima parte, amministrò in quella centrale e tornò “a tutta” nel finale: vinse la frazione e guadagnò altri 23 secondi su Poulidor. L’impresa gli valse anche l’ammirazione del pubblico francese, conquistato, oltre che dalle sue doti agonistiche, anche dal sorriso educato e cordiale. Gimondi divenne Jimondì.

Il Tour era ormai saldamente nelle sue mani e il bergamasco completò l’opera vincendo anche la cronometro finale dalla reggia di Versailles al Parco dei Principi. Era il 14 luglio, festa nazionale per i francesi, che applaudirono sportivamente il dominatore straniero. Poulidor terminò secondo e affranto. Capiva di avere perso l’occasione della vita, che non si sarebbe più ripresentata: non solo non vinse mai il Tour de France, ma non indossò mai, neppure per un giorno, la maglia gialla.

Anche Gimondi non rivinse più il Tour, ma quel trionfo di cinquant’anni fa gli regalò spessore e prestigio internazionale. Che poi Felice confermò l’anno dopo, vincendo le “classiche” Parigi-Roubaix e Parigi-Bruxelles, e nel 1967, conquistando il Giro d’Italia. Poi dovette inchinarsi allo strapotere di Eddy Merckx, di cui per dieci anni fu il rivale più irriducibile e rispettato. E quando il “Cannibale” allentò la presa, ormai al crepuscolo della carriera riuscì a togliersi altre soddisfazioni: il Mondiale nel 1973, la Sanremo nel 1974, il Giro (il terzo) nel 1976. Senza Merckx, avrebbe certo vinto di più. Ma senza Gimondi, anche il belga non sarebbe stato Merckx.

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