Il tuffo nel vuoto è difficile chiamarlo sport. Non è assolutamente accettabile continuare a giocare con la vita umana. Sarebbe meglio fermarsi e riflettere
di Leo GABBI
Il tuffo nel vuoto è difficile chiamarlo sport. Non è assolutamente accettabile continuare a giocare con la vita umana. Sarebbe meglio fermarsi un attimo e riflettere
Lo chiamano sport, ma facciamo fatica a definirlo così. La scorsa settimana in due giorni il Jumping, quel tuffo nel vuoto che per molti giovani è un concentrato di adrenalina allo stato puro, ha fatto tre vittime, un francese, una svizzera e un neozelandese, e a questo punto forse sarebbe meglio fermarsi un attimo e riflettere. Perché se è vero che chi si butta lo fa a suo rischio e pericolo, se è vero che le vittime erano tutte esperte nel settore, non è assolutamente accettabile continuare a giocare con la vita umana, attraverso discipline più o meno psudosportive. D’accordo, anche i motori e tante altre discipline mietono vittime ogni anno, ma almeno in quel caso ci sono federazioni ad hoc, in grado di porre dei correttivi, cercando almeno di frenare la mattanza.
Qui invece ci si rifà ad Icaro, a regole magari apprese a corsi di paracadutismo, a piccoli accorgimenti sul terreno da cui ci si getta (gli appoggi fissi possono essere rilievi naturali, edifici o ponti), per poi planare a terra con l’aiuto di un paracadute o peggio di una tuta alare dalle dubbie proprietà. Va bene la sfida, si può comprendere una certa inquietudine giovanile che necessita di continui stimoli, ma qui si sfiora una consapevole follia: attività pericolosissima, a fronte di messe in sicurezza alquanto aleatorie, che praticamente ogni settimana aggiorna le sue vittime tra i sempre più numerosi praticanti.
Così, la lunghissima scia di lutti, si aggiorna con le ultime tre vittime in due giorni la scorsa settimana, portando a oltre 220 il triste elenco di vittime consapevoli, stroncate negli ultimi anni a causa della loro passione (ma queste sono le cifre ufficiali, in realtà sarebbero molte di più). Una strage a cui finora, autorità civili e sportive hanno assistito quasi passivamente, con quel pizzico di fatalismo assolutamente fuori luogo, se si pensa al dramma di 220 famiglie che non sanno darsi pace per come sono stati privati di un figlio, un fratello, un marito. La componente di esibizionismo si fonde con la voglia di spingersi sempre un passo “oltre”: un mix che diventa sempre più spesso letale. Le tre tragedie di giovani stranieri arrivano a poca distanza dal doppio lutto avvenuto in Italia, a Terni, dove due ragazzi 25enni si erano schiantati al suolo dopo un volo di 70 metri. Pensare che l’impianto gestito da un’associazione era ormai chiuso vista l’ora tarda, ma i due giovani avevano insistito per poter fare un lancio di coppia che si è rivelato letale.
Poi, è vero, scattano indagini e rilevamenti a cura delle forze dell’ordine, ma alla fine prevalgono quasi sempre parole come “fatalità” o “volontà delle vittime di spingersi troppo oltre”. Bisognerebbe cominciare a mettere ordine nella definizione della parola “sport”, altrimenti, se si usassero gli stessi metri di giudizio, si dovrebbero annoverare tra le discipline agonistiche anche i duelli di spada all’ultimo sangue tra nobiluomini della fine dell’Ottocento. Provocazione? Certo, come tutte quelle vite spezzate dopo un volo assurdo, senza un perché.