Il pallone è ormai uno show-business in mano a sponsor, pay-tv e procuratori. Zanetti, Totti e il campione brasiliano le uniche bandiere non ancora ammainate del nostro campionato

di Leo GABBI

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Mentre i campionati sono già ripartiti e le Nazionali si giocano gli ultimi turni delle qualificazioni mondiali, diventa opportuno fare un passo indietro, con una riflessione legata al calciomercato appena concluso. Si è sempre detto che per rispetto di questa crisi che ha travolto milioni di famiglie in Europa, per rispetto di una crisi internazionale che ci ha spinti sull’orlo del baratro, il calcio avrebbe dovuto fare un passo indietro, adeguarsi a questa sorta di sobrietà che tutti sembrano invocare a parole, ma che poi viene sciaguratamente tradito nella pratica.

Il trasferimento-monstre di Gareth Bale, onesto pedatore gallese che il Real Madrid ha rilevato dal Tottenham alla folle cifra di (quasi) cento milioni di euro, diventa lo spartiacque tra il mondo reale e quello dell’artificioso pianeta dominato dal dio denaro e dai suoi capricci.

Al di là della disquisizione tecnica (Bale è un difensore, mai avrebbe potuto valere una simile somma, altrimenti Messi quanto bisognerebbe valutarlo?), occorre chiedersi cosa possa esserci dietro a un’operazione del genere.

Di sicuro lo show business, con i suoi contratti capestro dettati da sponsor e tv a pagamento sempre più invasive, ha ormai messo radici così profonde, che diventa difficile tornare a quel calcio primordiale, alla cui base c’erano lealtà e divertimento, auspicato recentemente anche da Papa Francesco.

Qualche piccolo barlume di calcio vintage ce lo regala almeno il ritorno di Kakà al Milan. Intendiamoci: sappiamo bene che il Real aveva una gran fretta di disfarsi da un contratto oneroso (perdendo, peraltro, in tre anni 67 milioni di patrimonio); che il giocatore aveva un disperato bisogno di giocare per non perdere il Mondiale e che il club rossonero doveva, alla luce dei tifosi, riguadagnare credito dopo una campagna acquisti sottotono.

Ma vedere un campione dalla faccia pulita come Kakà tornare nella squadra che lo ha lanciato a livello mondiale, dichiarare di sentirsi finalmente a casa e soprattutto ridursi della metà il suo ingaggio pur di giocare in un luogo dove può sentirsi veramente felice, ci fa ancora sperare che il cinismo non prenda del tutto il sopravvento.

Da Totti a Zanetti, fino appunto a Kakà, le bandiere del calcio non sono ancora ammainate, per la gioia dei tifosi che ai loro beniamini chiedono solo una cosa: un po’ di attaccamento verso quella maglia che amano.

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