Consenso informato e Dat: “debolezze” e “criticità” della recente legge

di Gianfranco Garancini

CENSIS: ITALIANI, E' WELFARE A DARE LA FELICITA'

In questo tempo in cui il mito individualistico dell’autodeterminazione rischia di rinchiudere ogni persona nel recinto della sua solitudine e della sua stessa volontà, senza altro riferimento che se stesso e il suo proprio diritto (“Il diritto di avere diritti”, Rodotà), e con la pretesa di non aver bisogno d’altro, il diritto, l’ordinamento, le leggi vengono lasciati un po’ da parte. Ce ne sono troppe, si dice (ed è vero, specie quando le troppe leggi ingabbiano aspetti minuti, pedanti, esclusivamente settoriali della vita quotidiana: i famosi “lacci e lacciuoli”); non servono, si dice: meglio la “sana”, “libera” concorrenza; meglio il “mercato”, che è capace di adeguarsi e livellarsi da solo (salvo scoprire che nel corso della storia, “concorrenza” e “mercato”, hanno sempre favorito i più forti e i più ricchi); meglio l’auto-determinazione, meglio lasciare che la società faccia da sé, tanto ci sono i giudici, gli arbitri, i mediatori.

Non è così. Questo è anche il tempo – in campi non certo periferici, ma anche assai importanti per il destino di ogni persona, e di ogni società – in cui, senza regole, ognuno trova una regola diversa, cercando quella che gli fa più comodo, ogni giudice rischia di giudicare non già in nome del popolo, ma in nome proprio e delle sue idee, giungendo così non all’ordine ma al caos, non alla giustizia, ma alla jungla, come si dice (che avrà anch’essa la sua legge, ma non sembra proprio una legge “giusta”). Il vero è che, invece, le leggi servono. Meglio se sono “buone” leggi, naturalmente; ma anche se non sono proprio buone buone, anche se conservano qualche zona d’ombra, se lasciano aperto il fianco a qualche discussione e a qualche incertezza, in questo tempo di incertezza (mal) camuffata da sicurezza, si potrebbe dire (ribaltando qualche vecchia opinione) che è meglio una cattiva legge, che nessuna legge; meglio un ordinamento e delle regole, per quanto discutibili, che – come si diceva – il caos e la jungla. O anche soltanto il vuoto. La legge – che ha comunque dietro di sé l’autorità di un’assemblea legislativa – dà comunque chiavi di lettura, regole di interpretazione, e consente alla società, e ai giudici, di meglio orientarsi, avendo a disposizione materiale normativo certo (anche se non sempre sicuro) da interpretare, plasmare, modellare sullo sviluppo del sentire comune, espresso appunto dalla legge.

Specie in materie “sensibili”, come tutto ciò che da tempo, ormai, chiamiamo “bioetica”, il vuoto normativo è assai più pericoloso di un “pieno” discutibile. Qui ci sono tracce, binari interpretativi in cui fare ancora memoria di valori e principi: nel vuoto, invece, tutto fluttua, tutto è incerto, tutto si confonde e si perde. Rischia, ancora una volta, di prevalere chi è più forte, chi sa alzare di più la voce; rischia di non poter (ancora una volta) farsi sentire chi ha meno voce, o non ne ha del tutto.

La recente legge sul consenso informato e sulle cosiddette Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) – impropriamente, a parer nostro, chiamata legge sul “fine vita” o sul “biotestamento” (si dovrebbe trattare – come si dice altrove in Europa – di “pianificazione condivisa delle cure”) – rientra in questa prospettiva.

Finora, sulla sofferenza del malato terminale – o sulla paura di diventarlo – si è sentito e visto di tutto: dentro e fuori da comportamenti legittimi, dentro e fuori dalla valutazione dei principi dell’ordinamento e dai valori del sentire condiviso. Ora la legge c’è, e – per quante interpretazioni se ne potranno dare, e per quante “debolezze” essa possa avere – non se ne potrà prescindere.

“Debolezze”, “criticità” ce ne sono, prima di tutto nella concreta applicazione. Alcune riguardano la legge in sé:

– Essa chiede, prima di tutto, ad una persona in relative condizioni di buona salute e di lucidità mentale, di “prevedere” il limite, la soglia di disabilità e di definitività della eventuale malattia oltre la quale dovrà essere sospesa la terapia;

– Essa presume, poi, che questa persona (il “biotestatore”) preveda oggi il grado di progresso della medicina che si verificherà (e si sarà verificato) al momento in cui si sarà concretizzata la patologia prevista e temuta;

– Essa pone (lo si deduce già dalla “faticosa” formulazione delle norme in materia) problemi relativamente alla redazione e alla conservazione, oltre che alla autenticazione, del “biotestamento”;

– Essa pone (in realtà “non” pone) norme precise in relazione alle modalità da seguire nel caso in cui si cambi idea nel corso del tempo.

Alcune “criticità”, poi, riguardano i protagonisti del rapporto (la cosiddetta “alleanza terapeutica”), e cioè i rapporti fra paziente (suo “fiduciario” o rappresentante) e medico:

– Potrebbe darsi il caso in cui una terza persona scelga per la salute dell’altra, senza che questa nemmeno conosca il proprio stato di salute: quanto previsto dall’articolo 1, terzo comma, riguarda solo il “consenso”, o anche il rifiuto della cura? È solo un esempio di “criticità” interpretativa: ma la legge parla solo di “consenso”, e crediamo vada proferita la lettura restrittiva, vista la “delicatezza” della questione;

– Quali rapporti tra il ruolo giuridico del “fiduciario” e quello dei “familiari”?

– Il medico (articolo 1, sesto comma) è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare o rinunciare al trattamento sanitario: solo così non ha responsabilità civile o penale. Diversamente vi ricade. Però il paziente (o anche il suo “fiduciario”? o anche il suo familiare?) non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge (l’eutanasia, per esempio), alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; però, ancora, in presenza di Dat – che il medico deve rispettare – il medico può ritenerle incongrue, o superate, o «non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente». In questi casi «il medico non ha obblighi professionali»;

– Vuol dire che può “fare obiezione”? Non “obiezione di coscienza” in senso tecnico, che deve essere esplicitamente prevista dalla legge; ma certamente obiezione “tecnica”, e anche quella “obiezione etica”, prevista dal Codice deontologico dei medici italiani, articolo 12 della versione del 1998;

– Manca una “nuova” figura di un soggetto “neutrale” che – nel caso di contrasti tra i protagonisti – possa intervenire a dirimere la questione. Anzi no: la legge estende di molto i poteri di intervento del giudice tutelare, e fin qui poche questioni; ma estende altresì il campo dei legittimati attivi: il medico, e anche il “rappresentante legale della struttura sanitaria” (articolo 3, quinto comma); ci si aspetta una crescita notevole del contenzioso, che andrà a finire nel collo di bottiglia del giudice tutelare.

Non sono che esempi, indicati dalla parte del giurista, e soltanto da quella.

Il quale giurista, però, vorrebbe aggiungere qualche criterio di lettura non tanto della legge, quanto della questione in sé (ma utili, credo, anche ad una applicazione quanto meno corretta della legge).

Il valore centrale da tutelare non può che essere la persona sofferente, che però è – pur se morente – ancora viva, e ha diritto sia a vivere quel po’ che le resta da vivere, sia a morire con dignità, senza inutili accanimenti, ma anche senza frettolosi abbandoni. Dovrà dunque essere accompagnata (quanta dedizione, quasi sempre, nelle antiche Compagnie della buona morte…), garantendole prima di tutto una terapia proporzionata e non invasiva, e assicurandole un’assistenza che prima di tutto abbia di mira il bene del malato, e non già solo l’obbedienza cieca alla volontà della persona malata, espressa da lei in condizioni comprensibilmente di stress fisico e psicologico, o da un “fiduciario” o da un “familiare” diversamente ma altrettanto stanchi e, forse, poco lucidi.

Anche per questo non si può pretendere che il medico sia solo un burocratico esecutore di una volontà così (comprensibilmente) poco oggettiva, escludendo la sua valutazione professionale e soprattutto la sua valutazione personale: il rischio potrebbe essere quello di costringere persone, il cui impegno è quasi sempre quello di partecipare, ad astenersi, a girare la testa dall’altra parte.

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