Una materia che richiederebbe riflessioni pacate in relazione all’impatto delle riforme

di Matteo Corti
Vicepresidente

Lavoro-Praticantato-Tirocinio-Imc Cropped

Il programma del nuovo governo in materia di diritto del lavoro presenta contorni piuttosto indefiniti. Il “Contratto per il governo del cambiamento” dedica al lavoro il paragrafo 14, invero piuttosto breve (poco più di una pagina). In esso si prefigurano, in modo assai sintetico: «l’introduzione di una legge sul salario minimo orario», da applicarsi là dove i minimi non siano fissati dalla contrattazione collettiva; la riduzione strutturale del cuneo fiscale e la «semplificazione, razionalizzazione e riduzione, anche attraverso la digitalizzazione, degli adempimenti burocratici connessi alla gestione amministrativa del rapporto di lavoro»; la reintroduzione dei vouchers; il rilancio delle politiche attive del lavoro e, in particolare, dei Centri per l’impiego; il contrasto alla precarietà, «causata anche dal “jobs act”», al fine di «costruire rapporti di lavoro più stabili e consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro»; il sostegno alla formazione iniziale e continua.

Il primo provvedimento del nuovo governo sul diritto del lavoro è mosso proprio dall’obbiettivo di contrastare la precarietà degli impieghi: si tratta del decreto legge 12 luglio 2018, numero 87, rubricato «disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese». Le misure che riguardano direttamente e indirettamente il lavoro si collocano nei capi I («misure per il contrasto al precariato») e II («misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali»). Sebbene sensibilmente ridimensionato rispetto ai progetti iniziali, che contemplavano addirittura una revisione della nozione di subordinazione finalizzata a includervi i lavoratori della cosiddetta Gig economy, il decreto interviene pesantemente sul lavoro a termine, sulla somministrazione di lavoro e sull’indennità per il licenziamento ingiustificato nel regime del cosiddetto “jobs act”.

Nel contratto a termine ricompaiono, in particolare, le causali, che erano state cancellate proprio dal “jobs act”, e la durata massima dei rapporti a termine viene ridotta (articolo 1). Un rapporto a termine privo di causali non potrà durare più di 12 mesi: qualsiasi rinnovo o proroga che vada oltre dovrà essere fondato su esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o su esigenze sostitutive di altri lavoratori, o ancora su esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria dell’azienda. In ogni caso, la durata massima di un rapporto a termine non potrà superare i 24 mesi complessivi (in precedenza erano 36), comprensivi di 4 proroghe (in precedenza erano 5).

Per quanto riguarda la somministrazione di lavoro (il cosiddetto lavoro interinale o tramite agenzia), la disciplina del contratto a termine tra l’agenzia e il lavoratore inviato in missione sarà assoggettata pressoché integralmente alle regole dei contratti a termine di carattere generale. Con il risultato che troveranno applicazione, per esempio, il limite massimo di 24 mesi e la disciplina delle causali (articolo 2). Si prevede, poi, che la contribuzione sui contratti a tempo determinato, anche in somministrazione, sia incrementata dello 0,5% ad ogni rinnovo del rapporto (articolo 3, comma 2).

Costerà, infine, di più licenziare ingiustamente i lavoratori assunti con il cosiddetto «contratto a tutele crescenti» introdotto dal “jobs act” (ovvero quelli assunti dopo il 6 marzo 2015, per i quali il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento ingiustificato è diventato residuale). L’indennità prevista sale da un minimo di 6 mensilità di retribuzione a un massimo di 36 (in precedenza erano, rispettivamente, 4 e 24): la progressione rimane collegata all’anzianità aziendale del lavoratore, in ragione di 2 mensilità per anno di servizio (articolo 3).

Come già accennato, nel capo II sono previste misure sanzionatorie assai severe nei confronti delle imprese beneficiarie di aiuti di Stato che procedano a delocalizzare la produzione all’estero (articolo 5) o, in caso di aiuti all’occupazione, la riducano entro i cinque anni successivi alla conclusione del programma agevolato (articolo 6). Quando la delocalizzazione avvenga al di fuori dell’Ue si prevede non soltanto la decadenza dal beneficio percepito, ma addirittura una sanzione amministrativa pecuniaria da 2 a 4 volte l’importo dell’aiuto fruito.

I provvedimenti anti-precarietà contenuti nel decreto hanno subito scatenato un vivace dibattito non soltanto nella comunità dei giuristi del lavoro, ma anche tra il vasto pubblico. Le voci a favore segnalano come i dati del mercato del lavoro indichino un’impennata dei contratti a termine, cui era necessario reagire con misure restrittive. Gli interventi che rendono più costosi i licenziamenti illegittimi e le delocalizzazioni sarebbero volti a evitare abusi, restituendo, appunto, “dignità” ai lavoratori. I commentatori più critici paventano, invece, la perdita di posti di lavoro, che conseguirebbe all’irrigidimento della normativa, e un aumento del contenzioso giudiziale, in ragione della reintroduzione delle causali di apposizione del termine.

Spiace che si proceda con lo strumento della decretazione d’urgenza in una materia che richiederebbe invece riflessioni pacate e valutazioni serene in relazione all’impatto delle riforme sul mercato del lavoro.

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