La prescrizione del reato alla luce della recente legge “Spazzacorrotti”
di Cesare
BERETTA
socio Unione Giuristi Cattolici Italiani
Due scritti comparsi sul Corriere della sera di domenica 24 febbraio, unitamente alla recente entrata in vigore della legge 3/2019, nel linguaggio mediatico nota come “Spazzacorrotti”, consentono di ritornare brevemente su un argomento già trattato in un precedente contributo, incentrato sul tema della prescrizione del reato e del rapporto tra questo istituto e il principio costituzionale di ragionevole durata del processo penale (articolo 111 comma 2 della Costituzione).
Allora si era scritto che il vero problema della giustizia penale era quello della celerità dei processi, per la sostanziale ingiustizia di tenere un accusato, non importa se destinato a condanna o ad assoluzione, “tra color che sono sospesi”, nell’ipotesi di prolungamento o di sospensione del decorso della prescrizione che, lo ricordiamo, indica il lasso di tempo tale oltre il quale lo Stato ritiene non esserci più interesse (e ragione) di perseguire un reato.
La scelta dell’attuale legislatore, con la legge numero 3/19, è stata proprio quella di non preoccuparsi di garantire la ragionevole durata del processo, ma di disporre la sospensione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, in attesa dei gradi successivi, per la cui celebrazione non sono previsti termini.
In sostanza “color che sono sospesi”, non solo se condannati, ma anche se assolti in primo grado, rischiano di restarlo per un tempo imprevedibile ed indeterminato, con le ricadute che si possono immaginare quanto ad aspettative di lavoro (in ipotesi, rischio di dinieghi di assunzione, esclusione da concorsi o da gare,) o anche di vita privata e familiare.
E qui entrano in gioco alcune considerazioni che nascono dalla citata lettura del Corriere della sera.
A pagina 1, nella rubrica “Padiglione Italia” Aldo Grasso ricorda che fu il ministro avvocato Giulia Bongiorno, come riportano anche altre fonti giornalistiche, a convincere il ministro Matteo Salvini a non rinunciare alle proprie prerogative di parlamentare per la nota vicenda della nave Diciotti, perché «sarebbe rimasto sotto processo per sei, sette, dieci anni».
A pagina 9 dello stesso quotidiano si dà conto della visita fatta dallo stesso ministro Salvini in carcere ad un signore condannato in via definitiva per tentato omicidio dopo avere sparato ad uno che si era introdotto in un suo cantiere edilizio per rubare.
Segnalo, neanche troppo incidentalmente, che se la condanna è per tentato omicidio significa che il caso esulava da ipotesi di legittima difesa e anche di eccesso colposo in legittima difesa.
Ma non è il fatto che ci interessa, quanto una frase attribuita al ministro Salvini: «Se vengo aggredito o minacciato nella mia azienda o a casa mia ho diritto di difendermi senza passare nove anni nei tribunali di mezza Italia» (dichiarazione risultante anche da altre fonti giornalistiche).
Queste due affermazioni dei ministri testimoniano che essi, soprattutto l’onorevole Bongiorno, avvocato penalista, sono perfettamente al corrente della necessità che il processo abbia una ragionevole durata.
Il che collide in maniera eclatante con la scelta della maggioranza cui fanno riferimento quegli stessi ministri di introdurre una norma che va nel senso esattamente opposto.
Essa è stata giustificata, tra l’altro, con l’osservazione che ciò costituirà un incentivo al ricorso a riti alternativi, quali patteggiamento e giudizio abbreviato (anche se quest’ultimo non è ben visto nell’ottica attuale tutta contraria a sconti di pena e a benefici processuali e penitenziari). Non ci resta che attendere per verificare se tali previsioni saranno esatte.
Va tuttavia osservato che la tale soluzione normativa appare inutilmente vessatoria nei confronti degli assolti nel giudizio di primo grado, per i quali la presunzione di non colpevolezza (articolo 27 della Costituzione), non subisce neanche quella sorta di più o meno inconscio “affievolimento” determinato da eventuale condanna in primo grado.
In questi casi il prolungamento a tempo indefinito della durata del processo costituisce di per sé una inutile sofferenza ed una pena impropria, dal momento che l’esperienza insegna l’infondatezza del paradosso secondo cui non ci sono innocenti ma colpevoli non scoperti.
È curioso peraltro che l’efficacia di questa nuova disciplina della prescrizione, ritenuta così importante, sia stata ritardata all’inizio del 2020. Una riserva mentale su una possibilità di resipiscenza?