La cosiddetta “riforma” Bonafede dimentica secoli di storia e di riflessione culturale
di Gianfranco
GARANCINI
«È noto che nel Paese di Acchiappacitrulli per svuotare le carceri si facevano le amnistie, cioè si cancellavano i carcerati e si rilasciavano i malandrini» (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, capitolo 19, in fine).
In un’Italia in cui molti, molti citrulli non sono stati ancora acchiappati (ma, d’altra parte, tanti altri sembrano soltanto pronti e vogliosi di farsi acchiappare…), con l’apparente motivazione di far sì che le lungaggini della Giustizia penale non provochino più la prescrizione dei reati, lasciando i colpevoli impuniti, invece che intervenire per ridurre, guarire, evitare le lungaggini della Giustizia penale (per non parlare di quelle della Giustizia civile) si abolisce la prescrizione. Come se, per far passare la febbre ai malati, si vietasse la vendita dei termometri.
Questa vicenda della cosiddetta “riforma” Bonafede (in realtà una deformazione del sistema giuridico penale che lo rimanda indietro più o meno di trecento anni) è un bell’episodio e un drammatico esempio di quella infinita storia del mondo alla rovescia (tema che vanta una cospicua e composita letteratura), storia che si va intensificando e accelerando ai tempi nostri, dimenticando secoli di storia “altra”, e di riflessione culturale.
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In realtà già nel 1764 il ventiseienne Cesare Beccaria scriveva (Dei delitti e delle pene, capitolo 30): «È necessario concedere al reo il tempo e i mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo così breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alla prova de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto». L’Illuminismo – anche quello lombardo, temperato dal buon senso, e rivestito di economia – già allora, reagendo alle durezze dell’assolutismo e richiamandosi alla ragione come caratteristica naturale dell’uomo e della sua civiltà, aveva introdotto anche nella riflessione sopra il diritto l’idea che un Paese democratico, per potersi dire tale, non avrebbe potuto arrogarsi il diritto di tenere sotto processo e di poter punire all’infinito i suoi cittadini, per quanto fossero colpevoli. E infatti, più avanti nello stesso capitolo 30, confermava la necessità che, per ciascun delitto, si fissasse l’adeguato “tempo della prescrizione”: «Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de’ sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile e ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia». Parole prima di tutto di buon senso, oltre che di libertà, e idea volta prima di tutto ad assicurare la “prontezza della pena” (capitolo 19), e con essa la sua certezza e la sua efficacia. E aggiungeva, come se fosse conclusione normale e ragionevole, prima ancora che razionale, che «il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile».
Trecento anni sono passati invano? Abbiamo un sistema penale (anzi: un sistema giudiziario nel suo complesso) ferito gravemente e, ormai, gravemente ammalato non già per l’esistenza delle norme sulla prescrizione, che non sono il vero problema del nostro sistema penale, ma a causa della sua quasi insopportabile (c’è chi ha scritto: «scandalosa») lentezza e farraginosità: il gran numero di dichiarazioni di intervenuta prescrizione (per altro con gravi, colpevoli differenze da distretto a distretto, da regione a regione) non è la causa (né potrebbe esserlo) della crisi della Giustizia penale in Italia, ma soltanto la conseguenza, l’effetto della cosiddetta “mala giustizia”, della giustizia in perenne ritardo, della giustizia troppo spesso negata. Se la Giustizia funzionasse, non sarebbe necessario cadere sotto la scure della prescrizione: é il ritardo che è sanzionato dalla prescrizione, e senza prescrizione il ritardo rimarrebbe intatto. Anzi, si consoliderebbe e, senza la sanzione della prescrizione, rimarrebbe del tutto impunito e ricadrebbe esclusivamente sulle spalle del cittadino, senza sfiorare le vere cause del malfunzionamento.
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Questa normativa introdurrà altresì, invece che maggior giustizia, maggior disuguaglianza: fra il ricco, che potrà diluire a suo piacimento con mille espedienti la durata del processo (d’altro canto la legislazione ad personam del primo decennio di questo secolo aveva intaccato – prolungandola a dismisura ed estendendola a ben determinati reati – proprio la prescrizione), allontanando sine die la sentenza, e il povero, che non disporrà dei mezzi necessari, e resterà nell’infinita attesa della sentenza che – prima o poi – comunque arriverà; fra il colpevole, che sarà ben felice dell’allontanarsi senza limite di tempo della (giusta) pena che sa di meritare, e l’innocente, che non potrà fare altro che aspettare – alla mercé dei tempi del giudice, o della macchina della Giustizia – in uno stato di sospensione impotente, e gravato di quel “carico pendente” e delle sue molteplici conseguenze negative (potrà fare concorsi? Partecipare a gare pubbliche d’appalto? Potrà godere di tutti e tutt’interi i suoi diritti?) a tempo sostanzialmente infinito. Ad onta della certezza del diritto.
Molteplici profili di incostituzionalità si affacciano: violazione dell’articolo 3 (principio di uguaglianza); violazione dell’articolo 27 (che fine fa la cosiddetta “presunzione d’innocenza”, se il “sistema” – che finora prevede tre gradi di giudizio – passato il primo si arroga il potere di non dirti più niente? E in che cosa si trasforma la pena, che interviene magari anni e anni dopo, per uno che – condannato in primo grado e, forse, assolto in secondo e in terzo – l’ha già scontata tutta, pur innocente?); violazione dell’articolo 111 (quale “ragionevole durata”? Quale ricorribilità “sempre assicurata” per la cassazione della decisione? Quale “giusto” processo, se potrà non essere mai archiviato, e se potrà sempre essere riaperto?). Sono, come si vede, solo spunti, ma sufficienti per delineare una seria, secca, plurima incostituzionalità in radice di questa “riforma” che le Camere penali (gli avvocati penalisti) hanno definito «una delle più sgangherate e pericolose riforme della storia repubblicana» (non solo: sarebbe d’accordo anche Cesare Beccaria, dall’antro dei secoli).
E non solo profili di incostituzionalità, ma altresì profili di buon senso, di logica, di cultura giuridica, sociale, politica si affacciano: abbiamo una Giustizia inefficiente, per tante ragioni funzionali, strutturali, organizzative. Una Giustizia in crisi. Ma per rendere la Giustizia efficiente e farla uscire dalla crisi, invece che agire sulla “macchina” della Giustizia, sul suo corpo, sulla sua organizzazione, sui suoi mezzi, sui suoi tempi procedurali, si comprimono i diritti dei cittadini, che sono le vittime della malagiustizia e sarebbero i destinatari della buona Giustizia: qualcosa non va, nel Paese di Acchiappacitrulli.