Caratteristiche, contraddizioni e insegnamenti delle “rivoluzioni arabe"
del professor Paolo BRANCA
In Tunisia, in Egitto e in Libia, dopo decenni di ininterrotto potere, presidenti di estrazione militare sono stati duramente contestati e infine deposti dai loro popoli. Che tutto sia avvenuto tanto in fretta ha preso alla sprovvista molti, ma – a ben guardare – ci sarebbe piuttosto da meravigliarsi che non sia accaduto prima. Evidentemente i tanto “feroci” discendenti di Saladino hanno indole più paziente di quanta gliene si voglia riconoscere…
Regimi dispotici, inetti e corrotti hanno avuto vita fin troppo lunga, spesso reggendosi sul semplice ricatto che avrebbero potuto esser sostituiti da governi ancor peggiori. L’Occidente, ossessionato dall’idea che qualche territorio strategico o ricco di materie prime finisse nell’orbita sovietica, ha a lungo favorito qualsiasi tipo di governo, purché “amico” e pertanto definito “moderato” (poco importa quanto effettivamente poliziesco e liberticida fosse), e all’interno del mondo arabo ha lasciato che i movimenti islamisti fossero utilizzati per neutralizzare quasi ogni tipo di opposizione laica – potenzialmente più pericolosa per i suoi interessi -, salvo dover poi fare i conti con le frange oltranziste di queste formazioni.
Ma la cosa che ha avuto le peggiori conseguenze è la sostanziale strozzatura della classe media che, come sappiamo dalla storia, è sempre stata il motore delle rivoluzioni liberali. Pochi e corrotti privilegiati che dominano una massa di diseredati è a lungo sembrato conveniente, ma in una prospettiva di assai corto respiro.
Gli egiziani, per esempio, sono oltre 80 milioni e, dato il tasso d’incremento demografico, tra 20 o 30 anni potrebbero essere il doppio. Non credo che potremo salvaguardare la nostra sicurezza, né quella dello stesso Israele, se i nostri così numerosi vicini non avranno condizioni di vita almeno decenti.
Il discorso del presidente Obama al Cairo proponeva un “nuovo inizio” nelle relazioni tra mondo arabo-musulmano e Occidente… Ce n’era un gran bisogno dopo la scriteriata campagna militare americana in Iraq. Che l’iniziativa di cominciare a cambiare le cose sia stata presa dai giovani arabi è stato un elemento estremamente positivo. Esportare la democrazia con la forza si era rivelato non solo impossibile, ma addirittura controproducente. Del resto dovremmo sapere che non si tratta di qualcosa che nasce magicamente dal rito delle elezioni.
La divisione dei poteri, il ruolo dei corpi intermedi e della società civile non s’improvvisano, specie laddove han dominato sempre autoritarismo e interessi di poche élites. Non si è trattato, come tanti hanno detto, di mere rivolte del pane, benché siano state accelerate dal rincaro di molti beni di prima necessità, ma piuttosto di una mobilitazione soprattutto giovanile, diffusasi fulmineamente tramite i social networks e i telefonini. Ragazzi e ragazze istruiti e senza prospettive, in cerca di dignità e di libertà troppo a lungo negate. Chi non appartiene ai “giri giusti” non ha infatti nessuna opportunità in questi Paesi e i comuni cittadini sono taglieggiati ogni giorno da chiunque vesta una divisa od occupi un posto burocratico, dovendo pagare sottobanco per ottenere anche il più banale documento o evitare grane. Pensarli come arretrati, destinati dalla loro stessa cultura o religione a vivere per sempre in una gabbia è stato un errore, per rimediare al quale ora non basterà la tiepida simpatia con cui abbiamo assistito al loro tentativo di riscatto.
Le diplomazie internazionali appaiono assai imbarazzate e soprattutto inerti, spaventate dall’incertezza del “dopo”. Ci siamo fin troppo abituati ad avere come orizzonte massimo quello delle prossime scadenze elettorali. Così non si fa politica, si vivacchia… oltretutto in un’Europa che sta invecchiando in fretta e male, infastidita dalla presenza di pur indispensabili immigrati e aggrappata al suo vacillante benessere, incapace di fornire speranze ai suoi stessi figli e tendente a restringere le già scarse garanzie a favore delle donne e delle altre categorie svantaggiate.
La lezione che ci è giunta dalle piazze di Tunisi, del Cairo e di Tripoli è stata paradossalmente quella di saper guardare al futuro. Anche questo è stato tuttavia solo un inizio e i fondamentalisti stanno tentando di cavalcare l’onda, così come altri cercano, gattopardescamente, di fare in modo che tutto cambi affinché tutto rimanga come prima.
La comunità internazionale non ha saputo far nulla per contribuire a prevenire queste involuzioni, mentre su altri scenari è caduto il più totale silenzio: come per il Bahrein, dove si corre addirittura un Gran Premio automobilistico di Formula Uno, nel quale la maggioranza della popolazione locale è sostanzialmente esclusa dalla vita pubblica, in quanto appartenente a una diversa confessione islamica, per non parlare dei numerosissimi immigrati asiatici in pratica senza diritti. Perfino il remoto e arcaico Yemen è stato coinvolto dalle proteste, che evidentemente esprimono un fermento più vasto e profondo di quel che si potrebbe sbrigativamente ritenere.
Il nuovo millennio deve farci ridefinire i nostri orizzonti, modificare le priorità e ribaltare le agende per portare gradualmente tutti a standard minimi di dignità. In piena crisi economica può sembrare strano dire queste cose, ma se riflettiamo bene non faticheremo ad accorgerci che si tratta di una prospettiva non solo ragionevole, ma possibile e auspicabile.
Intanto infuria una nuova querelle a proposito dell’ennesimo caso di blasfemia mediatica. Chi ha buona volontà e un minimo d’etica non può che opporsi con ogni mezzo a questa gara al massacro che vede gli oltranzisti della libertà d’espressione illimitata (come se non ci fossero argomenti tabù o almeno da trattare con estrema delicatezza persino tra coniugi…) e i fanatici che rispondono con la violenza verso innocenti al minimo pretesto, due facce della stessa sconcertante medaglia.