L'Arcivescovo è intervenuto all'Istituto dei ciechi di Milano per il tradizionale incontro con i giornalisti in occasione della festa del santo patrono della categoria. A dialogare con lui, Gianni Riotta, editorialista de La Stampa
di Stefania CECCHETTI
«Le società contemporanee devono fare ricorso in maniera sistematica alla comunicazione, molto di più delle società precedenti, perché hanno assunto una fisionomia plurale. Convivono visioni diverse del mondo, che si incontrano e talvolta si scontrano. Questo rende nostre le società potenzialmente conflittuali, ma d’altra parte dobbiamo trovare il modo di vivere insieme».
Non poteva che cominciare con una considerazione sulla centralità della comunicazione la riflessione del cardinale Angelo Scola al tradizionale incontro con i giornalisti in occasione della festa di San Francesco di Sales, svoltosi questa mattina presso l’Istituto dei Ciechi di Milano.
A dialogare con l’Arcivescovo, Gianni Riotta, editorialista de La Stampa, conduttore Rai e docente alla Princeton University.
Pioniere della comunicazione sul web, Riotta è stato chiamato in causa dalla moderatrice del dibattito Rolla Scolari, direttrice di Oasis, proprio sul ruolo dei nuovi media nella società plurale. È possibile utilizzare i nuovi strumenti senza cadere nella trappola dello scontro diretto? «L’errore – ha risposto il giornalista – è considerare i nuovi media come uno strumento, come una macchina da scrivere particolarmente sofisticata, quando invece sono un ambiente. Il web è il modo in cui l’uomo del XXI secolo ingaggia e interagisce con la realtà. E non si tratta di gestire o meno un account Twitter o Facebook, perché gli avvenimenti ormai ci finiscono comunque, per osmosi. Guardiamo il Papa, è un grandissimo comunicatore ma si dichiara allergico a qualsiasi dispositivo elettronico che abbia più di due tasti».
Secondo il cardinale Scola, il grande cambiamento operato nella comunicazione da papa Francesco è dato dalla sua stessa personalità: «Papa Francesco ha questo dono straordinario di giocarsi in prima persona. L’autorevolezza di ciò che dice emerge con forza, perché prima di dirlo lo vive. Lo fa secondo una modalità legata alla sua sensibilità latino americana, che è un po’ diversa dalla nostra di europei, ancora figli del grande intellettualismo moderno, per cui il ragionamento mette un’intercapedine tra ciò che siamo e ciò che diciamo». In questo senso, secondo l’arcivescovo Scola, il Papa è un grande testimone: «Non nel senso riduttivo e moralistico di “buon esempio”, ma nel senso pieno dei grandi santi e dei missionari, che arrivano anche a dare la vita. Il Papa è uno che intende stare abbarbicato alla realtà, perché la vuole conoscere in termini adeguati. E quando si conosce la realtà si comunica la verità, perché la verità è la corrispondenza tra realtà e conoscenza».
Il tema della verità è centrale nella nuova comunicazione anche per Gianni Riotta: «È spiacevole da dire, ma dagli studi sulla comunicazione emerge che on line una notizia falsa cammina molto più velocemente di una vera. Questo non ha a che fare col web, ma con il modo in cui noi esseri umani accettiamo la verità». Ciò non significa che il male trionferà in Rete, ci tiene subito a precisare il giornalista: «Credo che per la Rete valgano due passi del Vangelo di San Giovanni, che da una parte dice “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, ma dall’altra “Gli uomini preferirono le tenebre alla luce”».
Centrare la realtà, descriverla senza travisarla: è questa la sfida della comunicazione oggi secondo il cardinale Scola, tanto più in in un mondo che sta profondamente cambiando: « È in atto un processo di migrazione di tale livello quantitativo e qualitativo che sta imponendo un meticciato di civiltà e culture. Quando ho cominciato a usare questa parola, nel 2011, mi hanno accusato di sincretismo. Ma i processi non ti chiamano al telefono per dire che stanno capitando, succedono e basta e noi possiamo solo cercare di governarli. Non abbiamo avuto i i tempi lunghi della Francia, in Italia il processo è stato molto accelerato e secondo le tragiche modalità che conosciamo del Mediterraneo».
Questo ci ha portato in pochi anni a dover fare i conti con uomini di diversa etnia cultura e religione: «Dobbiamo vincere il nostro vizio intellettualistico – esorta il Cardinale – e accettare il dato reale: abbiamo tra di noi un milione 200 mila musulmani dichiarati, tanti fratelli cristiani ortodossi, molti latinoamericani che sono cattolici, ma secondo un certo tipo di sensibilità. I nostri oratori sono pieni di bambini musulmani che giocano, si fanno aiutare nello studio. Che fare? L’unica strada è partire dalla nostra fede e dalla comune appartenenza alla famiglia umana. La fede cristiana correttamente intesa non è un’obiezione ma un fattore che favorisce l’incontro di religioni».
La fedeltà alla propria identità, dunque, come elemento fondamentale del dialogo. Lo pensa anche Riotta, quando «La sfida del XXI è trovare il modo, in una società si va secolarizzando, di difendere i nostri valori di cui anche la religione fa parte. In questo senso credo che i francesi, che dalla Rivoluzione in poi hanno fatto dello Stato una religione, stiano sbagliando». E a questo proposito Riotta ricorda la discussione di anni fa sulla Costituzione europea: «Giovanni Paolo II si batté perché ci fosse nella costituzione europea il riferimento alle tradizione cristiane. Il riferimento non fu messo, ma nemmeno la Costituzione fu fatta, era talmente fredda che non interessava nessuno. Non aver fatto il dibattito è stato esiziale. Non possiamo sterilizzarci perché pensiamo che il dibattito non sia politicamente corretto». E conclude: «Io non ho dubbi sul fatto che le forze della tolleranza vinceranno su quelle dell’intolleranza. Non perché sono ottimista, ma perché la tolleranza e la ragione funzionano meglio, hanno più capacità di autocorrezione e quindi alla fine si affermano. A patto che noi non rinunciamo a noi stessi spaventati dagli altri».
Tolleranza e democrazia che il cardinale Scola chiama in causa quando interviene su alcune questioni sempre calde, come quella della moschea a Milano: «Se la società rinuncia ai simboli, o per sbaglio perché costretta dall’autoritarismo, perde qualcosa. Una società plurale deve essere il più possibile inclusiva. Ci sono tanti bambini musulmani? Non bisogna rinunciare alle nostre feste, ma inserire nella dimensione pubblica anche qualche loro festa. Il diritto ad avere un luogo di culto è sacrosanto dove c’è libertà religione. Ma è sacrosanto anche chiedersi da chi arriva la richiesta, cosa vuole farne di questo luogo, come esso si inserirebbe nel tessuto urbano. I simboli, se ben interpretati e fatto salvo l’elemento sicurezza, dovrebbero favorire il dialogo interreligioso e quindi rappresentare elemento fondamentale per una vita buona. Il cambiamento ti dà un pugno allo stomaco, ma bisogna reagire rendendo dinamica la propria identità».
Un principio applicabile anche a una riflessione su un evento strettamente attuale, il Family day: «In una società plurale è un dovere proporre la propria visione delle cose al paragone e all’incontro con tutti. Trovo normale che dei laici, cristiani e non, in un momento così delicato del confronto su questa questione che mette in campo mutazione antropologica e sociale molto grande, si diano delle ragioni per un confronto con tutti gli altri. La nostra democrazia ha gli strumenti per verificare quale sia l’orientamento prevalente di cui chi governa deve tenere conto».